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( dal comunicato dell’Ambasciata polacca a Roma )
Anche se la fase critica legata alla pandemia sembra superata, la Polonia continua a stare al fianco dell’Italia. Come riferisce un comunicato dell’ambasciata polacca a Roma, “attraverso gesti concreti che vengono dal cuore”, Varsavia vuole dimostrare la propria solidarietà e il proprio sostegno all’Italia, provata dalla lotta contro il coronavirus. A mobilitarsi questa volta sono le città che corrono in soccorso alle loro gemelle italiane. E così il sindaco della polacca di Przemysl, Wojciech Bakun ha deciso di aiutare la città gemellata Chivasso, nel Torinese. Con i fondi del comune ha acquistato mascherine protettive e ha lanciato un appello alle aziende private della sua città per una raccolta di soldi per acquistare dispositivi di protezione individuale da inviare agli abitanti di Chivasso. Mascherine e gel disinfettante sono giunti in questi giorni al sindaco di Chivasso Claudio Castello. Alla consegna era presente il console onorario di Polonia a Torino Ulrico Leiss De Leimburg. “Anche se le notizie che giungono parlano di un miglioramento della situazione in Italia sul fronte Covid19, vediamo che la situazione in Lombardia e in Piemonte è tutt’ora difficile” ha scritto il sindaco Bakun a Claudio Castello nella lettera che accompagnava la spedizione e che portava i saluti alle autorità comunali e agli abitanti della città. “Auguro agli abitanti di Chivasso che stanno fronteggiando la malattia un pronto ritorno alla salute. Spero che a breve tutti potremo riprendere a funzionare in condizioni normali”. “Sono profondamente commosso per il gesto di solidarietà che ci arriva dalla città nostra gemella di Przemysl” ha dichiarato il sindaco Castello, che ha anche ammesso che Przemysl è stata la prima città partner a interessarsi alla situazione di Chivasso.”Voglio ringraziare il sindaco Wojciech Bukan, il Consiglio comunale e tutta la comunità di Przemysl per la generosa donazione che conferma la fratellanza che ci unisce. Un sentito ringraziamento va anche a tutta la Comunità polacca di Torino e al console Onorario della Repubblica di Polonia di Torino Ulrico Leiss. Con l’augurio che la pandemia si fermi presto e che possano così riprendere gli scambi culturali tra le due città”. In questo momento di emergenza e di difficoltà la Polonia è ben lieta di dar nuovamente prova del grande affetto e vicinanza che nutre per l’Italia e far vedere che non ha dimenticato la solidarietà dimostrata dagli amici Italiani nei momenti difficili della storia. La città di Chivasso ha infatti un lungo e importante legame storico con la Polonia. La Mandria di Chivasso, come tanti altri luoghi sul suolo italiano, ricorda le storie intrecciate di due nazioni, storie segnate da un profondo senso di solidarietà e dalla fratellanza d’armi, storie di due nazioni in cerca della libertà, indipendenza e unificazione nazionale. Decine di migliaia di soldati polacchi dell’armata austro-ungarica, prigionieri di guerra prima disseminati in diversi campi di prigionia sul territorio italiano, tra dicembre 1918 e giugno 1919 trovarono ospitalità alla Mandria di Chivasso e lì furono addestrati per far parte dell’Armata polacca in Francia, preparandosi a essere non solo soldati, ma anche cittadini della patria libera. La Mandria è un simbolo del punto di svolta nel cammino verso l’indipendenza della Polonia perché i polacchi che vi giungevano con la divisa dell’esercito austro-ungarico ripartivano con la divisa blu dell’Armata polacca in Francia, pronti a combattere per difendere la libertà del loro paese. Nei mesi scorsi erano già arrivati in Italia aiuti da parte del governo polacco che aveva inviato in Lombardia medici, paramedici e dispositivi di protezione. In seguito si erano moltiplicate iniziative spontanee di soggetti privati, come quella dei coltivatori della cosiddetta super-frutta, cioè la frutta carica di vitamine che contribuiscono a rinforzare le difese immunitarie. I produttori polacchi hanno deciso di dividere con gli italiani quello che hanno di più prezioso: i frutti del loro lavoro. Hanno infatti voluto destinare parte di quanto da loro prodotto a medici, infermieri e altri operatori sanitari impegnati in prima linea nei reparti per malati di Covid-19 dei centri più colpiti, Torino e Bergamo, a dimostrazione del sostegno e della profonda ammirazione per l’inesauribile forza e lo spirito di sacrifico del personale sanitario italiano, accompagnando i loro prodotti da un messaggio di solidarietà e incoraggiamento rivolto al personale medico e paramedico italiano inviato su Youtube. Gesti di solidarietà apprezzati, come testimonia l’intervista rilasciata dal dott. Libero Ciuffreda, direttore Oncologia Medica 1 alle Molinette di Torino, visibile anch’essa su Youtube.
È davvero curioso che il mercato mondiale degli champagne, che è detenuto da tre grandi aziende francesi, sia stato creato da donne, tre giovani vedove, che hanno creduto nelle proprie forze, e che rischiando tutto quello che avevano hanno costruito degli imperi memorabili, in anni in cui non solo i mercati ma anche la vita delle donne era completamente nelle mani degli uomini.
Barbe Nicole Clicquot-Ponsardin (1777 – 1866)
Figlia di un ricco commerciante di Reims Barbe-Nicole Ponsardin a 22 anni sposa François Clicquot, figlio di Philippe Clicquot. Il marito nel 1805 muore di febbre maligna, lasciandola vedova a soli 27 anni e con una azienda vinicola che all’epoca produce circa 100.000 bottiglie all’anno. Intelligente, piena di risorse ed energica, la Veuve (vedova) Clicquot era una donna determinata e con il coraggio necessario ad affrontare quella sfida. Assunse la gestione della proprietà di famiglia e divenne una delle prime donne imprenditrici dei tempi moderni, pur rischiando più volte di fallire, tormentata com’era dai banchieri che non le facevano credito, dai cambiamenti di regime e dalle crisi economiche.
Segue l’andamento della sua azienda sempre in prima persona, recluta il personale, sorveglia i trasporti fino ai porti d’imbarco per trattare con le truppe d’occupazione. Da sempre una vera perfezionista, nel 1816 inventò la prima table de remuage, una tavola che inclina le bottiglie, facendo gradualmente scivolare i sedimenti verso il collo della bottiglia, rendendo così lo Champagne limpido e notevolmente più nobile. È il Metodo champenoise grazie alla quale il vino resta chiaro e limpido, e che Barbe-Nicole riesce a mantenere segreto per 15 anni in una città dove tutti si conoscono, forse perché condivide i profitti con il personale. Il successo di vendita è immediato. L’azienda cresce e comincia ad acquistare i migliori vigneti della regione per soddisfare la domanda crescente. Nel 1821 prende in stage il giovane Edouard Werlé, al quale nel 1841 lascia la direzione dell’azienda che ormai vende mezzo milione di bottiglie all’anno (alla morte di lei saranno oltre 760.000). Nel 1843 Barbe-Nicole si ritira nel castello neo-rinascimentale di Boursault e lì muore a 89 anni.
Louise Pommery (1819-1890)
Louise Pommery, nata Jeanne Alexandrine Louise Melin, era figlia di proprietari terrieri delle Ardenne. Nel 1839, sposò Louis Pommery, proprietario di una casa di champagne, la Pommery-Greno. Scomparso prematuramente nel 1858, Louis la lasciò vedova a 39 anni. Donna intelligente e di grandi energie, Louise Pommery valuta attentamente il successo commerciale della grande veuve Clicquot e dichiara pubblicamente: “Io, signora Pommery… Ho deciso di continuare a commerciare sostituendomi a mio marito!“
Sotto la sua guida, l’attività è cresciuta notevolmente. Un vero genio per gli affari, cambia il gusto dello champagne, intuendo che il futuro non era nei vini dolci, morbidi, tanto popolari all’epoca, ma nei vini secchi o extra-dry coi quali poter pasteggiare. Il successo la stava aspettando: per ottenere vini migliori fece scavare oltre 18 chilometri di gallerie in antiche cave di gesso, per poterli invecchiare in ambienti idonei. La famiglia manterrà la proprietà della casa Pommery fino al 1979, quando fu acquisita da un colosso del lusso.
Lily Bollinger (1899-1977)
L’azienda Bollinger è stata fondata nel 1829, nel cuore della Champagne, da un tedesco, Jacques Joseph Bollinger. Nel 1923 il nipote del fondatore Jacques Joseph, Jacques Bollinger, che gestiva l’azienda, sposò Elizabeth Law de Lauriston Boubers, Lily. Alla morte di Jacques nel 1941, vedova senza figli, Lily si ritrovò a capo dell’azienda di famiglia fino alla sua morte. Lily Bollinger è ricordata come una donna energica, originale, simpatica, attraversava i suoi vigneti in bicicletta e a un giornalista che le aveva chiesto se amava il proprio champagne, rispose: “..io bevo quando sono felice e quando sono triste… qualche volta bevo quando sono sola e quando non lo sono, lo considero obbligatorio. In altre circostanze, non lo faccio, a meno che non abbia sete … “. Anche durante i difficili anni della seconda guerra mondiale, Lily continua instancabile la promozione e lo sviluppo della sua azienda, i lavoratori non si trovano, o sono militari o sono prigionieri, ma lei si occupa di tutto, dai vigneti, alle cantine e le spedizioni, senza mai perdere il suo grande ottimismo. Fedele ai metodi tradizionali anche se sembrano superati sostiene: “… la qualità dei miei vini lo dimostra“.
Interdette dalle cantine e dalle cave – la loro semplice presenza convertiva il vino in aceto (dicevano) – le donne hanno trovato ancora una volta ruolo, posto e merito dentro l’ennesimo universo maschile, dimostrando che l’amore e la cultura del vino non sono esclusiva e privilegio di un genere. Étoiles della Champagne, le vedove Clicquot, Pommery e Bollinger hanno ingentilito e innalzato lo champagne, ribaltando i loro destini e ispirando altre vedove (Apolline Henriot, Augusta Devaux, Mathilde Perrier, Camille Olry-Roederer) e invitando altre donne (produttrici, enologhe, agronome, viticoltrici, chef de cave, direttrici artistiche, enotecarie, ristoratrici) a levare la coppa e a coniugare il vino al femminile.
L’uso di prodotti di qualità rende sempre facile la buona riuscita di un piatto.
Ecco per voi una semplice ricetta che rappresenta l’italianità in Polonia: “tasca di pollo all’Antonio.” Il giovane cuoco di origine ucraina Anton Teslyuk ha sempre avuto una passione per la nostra cucina e grazie la guida dell’executive chef Marco Bernardi ha realizzato alcuni piatti presenti nel menù del ristorante Al Ponte a Danzica.
Ricetta per 4 persone.
Ingredienti:
4 petti di pollo
8 pomodori secchi di Sicilia
250 gr di mozzarella fior di latte
4 foglie di basilico
Sale. Pepe
Procedimento:
Create una tasca nel petto di pollo e inserite due fette di mozzarella, due pomodori secchi, una foglia di basilico fresco, Salate e pepate. Fate rosolare in una padella con un filo d’olio in entrambi le parti poi mettete la tasca si pollo in forno preriscaldato a 190 gradi per 12 minuti. Una volta pronto servite in un piatto accompagnandolo con della rucola o una insalata di stagione. Lo chef Anton lo accompagna con una salsa al basilico.
I fondatori di Evergreen, da anni vegetariani e con il tempo diventati vegani, hanno voluto trasmettere i loro principi etici e le loro ideologie ecologiche e cruelty-free sia nella loro vita privata che nel loro lavoro. Percio’ nel 2008 hanno aperto il loro proprio negozio di prodotti vegani, importati da vari paesi.
Il negozio non solo offre una vasta gamma di prodotti alimentari strettamente vegani, che possono essere anche biologici e fabbricati nel rispetto della natura, ma anche cosmetici naturali ed ecologici e prodotti per la pulizia che non contengono additivi chimici e soprattutto che non sono testati su animali.
L’azienda si impegna pertanto a soddisfare sia il consumatore vegano amante degli animali e rispettoso dell’ambiente, sia quello che soffre di allergie alimentari o che segue una dieta specifica (come la dieta glutenfree o quella sugarfree).
A gennaio del 2016 e’ stata acquistata da persone di provata esperienza nel settore food con l’obiettivo di organizzarla per un futuro sviluppo sia in termini di fatturato che di assortimento.
Ad aprile del 2017 e’ stato aperto un magazzino di stoccaggio merci, con cella frigo, dove e’stata decentrata la vendita online.
In primavera di quest’anno infine, il negozio al dettaglio e’ stato ampliato e rinnovato.
NEGOZIO EVERGREEN Indirizzo: ul. Słomińskiego 15 lok.502, 00-195 Warszawa
(accesso da ul.Inflancka) Tel.: (22) 416 71 71 E-mail: sklep@evergreen.pl Sito web:evergreen.pl Facebook:facebook.com/Evergreen.sklep/
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La Polonia insieme a 11 altri stati membri dell’Ue ha esortato la Commissione europea ad assistere la ripartenza del settore automobilistico. A firmare la lettera è stata la vice presidente del consiglio Jadwiga Emilewicz, che ha sottolineato il ruolo del settore per l’economia della Comunità. “Oltre ai valori economici il settore automobilistico realizza anche gli investimenti fondamentali per l’introduzione del modello di mobilità sostenibile”, ha dichiarato Emilewicz. Per questo motivo, secondo il ministero dello sviluppo, un piano europeo di ricostruzione dovrebbe comprendere anche un programma dedicato al settore automobilistico, con una forte assistenza finanziaria che gli permetterebbe non solo la ripresa ma anche l’ulteriore sviluppo. Il settore automobilistico svolge un ruolo chiave nell’economia: porta il 7% del Pil europeo, fornisce lavoro al 6% dei dipendenti nell’Ue, genera il 12% del valore totale delle esportazioni (portando ad un profitto di 84,4 miliardi di euro) e ogni anno investe nella ricerca e sviluppo i fondi privati che ammontano a 57,4 miliardi di euro (il 28% dei fondi dell’Ue in questo ambito). È un settore all’avanguardia dell’industria che permette la manutenzione delle catene di forniture e la conformità con gli obiettivi ambientali e digitali, è anche impegnato nei tentativi di produrre veicoli a emissioni zero.
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Il candidato presidenziale nelle elezioni 2020 in Polonia, Szymon Hołownia, ha parlato a Skierniewice, una città della Polonia centrale, nel voivodato di Łódzkie. Dal 60% al 90% dei terreni nel voivodato sono a rischio di siccità, molto dannosa per l’agricoltura di questa regione. Hołownia durante il proprio discorso ha promesso che durante il suo mandato presidenziale attuerebbe misure di prevenzione della siccità nelle campagne e città, sottolineando che oggi l’acqua è più preziosa del petrolio. “Da Presidente, tratterrò la questione di acqua, ecologia e tutela ambientale come una priorità (…). Porrò il ‘veto verde’ ad ogni legislazione deteriorante l’approvvigionamento idrico oppure acuente la crisi idrica in Polonia.” Siccome il rafforzamento della protezione dell’ambiente e i principi della cosiddetta economia verde fanno parte del programma elettorale di Hołownia, il candidato presidenziale promette anche di contrastare ogni proposta di legge allontanante il paese dalla decarbonizzazione e dalla neutralità climatica entro l’anno 2050”.
Nella dinamicissima Zona Economica Speciale di Goleniow, a Stettino, opera una apprezzata azienda italiana specializzata in scale e ponteggi che ha fatto del tema della sicurezza sul lavoro la sua filosofia produttiva e commerciale. Ne parliamo con il direttore generale Gianluca Marcattilii, dal 1992 dipendente della Faraone e dal 2001 responsabile della Faraone Poland l’affiliata polacca.
“La Faraone Poland è una storica azienda italiana attiva dagli anni Settanta del secolo scorso. Inizialmente specializzata in infissi la Faraone Poland ha poi quasi per caso scoperto le potenzialità del mercato delle scale e dei ponteggi, un settore in cui oggi è un assoluto leader grazie alla capacità di realizzare progetti custom, ovvero ritagliati sulle esigenze del cliente. Nel teramano, dove ha sede l’azienda madre, si raccolgono molte olive e in maniera del tutto episodica si pensò di creare una scala sicura per salire sugli ulivi per evitare i frequenti incidenti. Quel prototipo di scala funzionò così bene che rapidamente divenne un prodotto ricercatissimo che si affiancò agli infissi che era il core business dell’azienda.”
La Faraone Poland quando ha scoperto la Polonia?
“Negli anni Novanta partecipando ad una fiera siamo venuti in contatto con la polacca Akala, che si occupava della distribuzione dei prodotti. Le prime collaborazioni sono del 1994 poi piano piano Faraone Poland ha deciso di investire nella Akala e col tempo ha poi preso il controllo e l’intero pacchetto azionario della Akala. Questa nostra affiliata polacca negli ultimi anni è cresciuta costantemente e nel 2007 siamo passato dalla vecchia sede a Lipiany all’attuale a Goleniow, comprando un terreno di 2 ettari e costruendo una sede con magazzino di 3 mila metri quadri, ora abbiamo in progetto un secondo capannone. Nel frattempo la nostra forza lavoro, quasi interamente polacca, è cresciuta e ora conta 35 persone di cui 23 impiegati in sede e gli altri girano per la Polonia.”
Il valore aggiunto della Faraone Poland è il lavorare su misura, in pratica il risolvere problemi logistici con soluzioni ritagliate sulle necessità del cliente?
“Esatto, noi di base facciamo scale di alta qualità, prodotti con uno standard di sicurezza e resistenza maggiore di quelli che comunemente si trovano in vendita nella grande distrubuzione. Le nostre scale sono di alta gamma, utilizzate da chi ad esempio lavora nei centri commerciali, o dalle tante aziende che hanno bisogno di fare interventi o manutenzioni in quota, per pulire cisterne, aerei, treni, camion, betoniere. In genere le aziende ci chiamano, facciamo il sopralluogo e poi progettiamo strutture per lavorare in quota in modo sicuro e adatto esattamente alla funzione per cui viene usato, facendo così lavorare meglio e senza pericolo le persone.”
Il lavorare quotidianamente in sicurezza è un tema fondamentale ma che forse non è ancora ancora al centro dell’attenzione delle aziende?
“Le grandi aziende investono in sicurezza, non si possono certo permettere di far lavorare i loro dipendenti in situazioni instabili o insicure, quello che preoccupa sono invece le piccole, medie aziende. L’anno scorso quando ho partecipato il 28 aprile alla giornata mondiale sulla sicurezza al Parlamento di Varsavia ho sentito i numeri delle tragedie sul lavoro, in particolare in campo edile e specialmente nei lavori in quota. Immediatamente ho deciso di creare la Fondazione “Polska kocha bezpieczeństwo” per diffondere in tutti i livelli della società la cultura della sicurezza. Ora questa Fondazione porterà nelle scuole polacche le regole base per vivere in sicurezza, ma faremo corsi anche ai lavoratori. Non vogliamo più vedere gente che fa lavori pericolosi senza casco o guanti, persone che si giustificano con la frase, terribile, “ho sempre fatto così”. Frase che dicono finchè non succede la disgrazia, solo dopo capiscono. Gli incidenti non si curano ma si prevengono, questa la nostra filosofia che ci ha portato a farci conoscere e apprezzare in tutta Europa.”
Il 10 di settembre del 2011, a Londra, nel cimitero della chiesa di St. Nicholas a Chiswick, davanti all’Ambasciatore d’Italia, si svolgeva una simbolica cerimonia per celebrare il completamento dei lavori di restauro della tomba di uno dei più grandi poeti italiani. E la data non era casuale: lo stesso giorno, ma dell’anno 1827, a Turnham Green, un villaggio poco distante da Londra, assistito dalla figlia Floriana, che devota e affettuosa lo accudì fino alla morte, si era infatti spento, in esilio, ammalato di idropisia e segnato da stenti, delusione e nostalgia Ugo Foscolo. La salma venne così deposta nel cimitero di Chiswick, in un misero tumulo anonimo, segnato solo da un sasso, su cui l’amico inglese Hudson Gurney aveva inciso il nome.
Al posto di quella semplice pietra, però, in seguito Gurney, ricordando quanto i “Sepolcri, simbolo di affetto e di civiltà, fossero la sua estrema illusione”, volle adeguatamente ricordare il poeta e l’amico italiano seppellito in terra straniera, facendo realizzare un più che decoroso sacello – quello restaurato nel 2011 – assegnando l’incarico allo scultore torinese Carlo Marochetti, il quale, in luogo di quella pietra, che era divenuta presto illeggibile, costruì un parallelepipedo in granito, che richiamava un’ara romana, legato da un nastro con la scritta “accingar zona fortitudinis” (“sarò cinto dalla cintura della fortitudine”: una frase tratta dal foscoliano Didymi Clerici prophetae minimi Hypercalypseos liber singularis), scelta in omaggio alla fortitudine dimostrata da Ugo Foscolo nel 1815, quando, invitato dal governo austriaco a collaborare alle iniziative culturali del nuovo regime, dopo un primo momento di incertezza se accettare o meno, alla vigilia del giorno in cui avrebbe dovuto prestare giuramento di fedeltà agli stranieri invasori, non ebbe però più esitazioni e decise di lasciare definitivamente l’Italia, per andare in volontario esilio.
Congedandosi allora dalla madre, aveva scritto una toccante lettera, in cui tra l’altro diceva: «L’onore mio e la mia coscienza mi vietano di dare un giuramento che il presente governo domanda per obbligarmi a servire nella milizia, dalla quale le mie occupazioni e l’età mia e i miei interessi mi hanno tolta ogni vocazione. Inoltre tradirei la nobiltà, incontaminata fino ad ora, del mio carattere col giurare cose che non potrei attenere, e con vendermi a qualunque governo. Se dunque, mia cara madre, io mi esilio, tu non puoi né devi né vorrai querelartene, perché tu stessa mi hai ispirati e radicati col latte questi generosi sentimenti; e mi hai più volte raccomandato di sostenerli». Da quel giorno, Foscolo non tornerà più in Italia.
In Svizzera rimane fino al 1816, prima di decidere di trasferirsi in Inghilterra, a Londra, dove trova inizialmente migliore accoglienza, per la fama ottenuta soprattutto come autore dei Sepolcri e per non essersi piegato di fronte a Napoleone, odiato nemico degli inglesi. Si ritrova così spesso al centro di chiacchiere e di scenate, accadute nei migliori salotti londinesi, dove il veneziano, oltre a fare sfoggio della sua eloquenza, si abbandonava però pure a gesti impulsivi, che creavano spesso disagio ai malcapitati presenti. Come Sir Walter Scott, il famoso scrittore, che in una pagina del suo diario, datata 24 novembre 1825, ne dipinge ironicamente un eloquente ritratto: «A proposito di forestieri, a Londra albergava, un quattro o cinque anni fa, uno di quegli animali che sono leoni (inteso, il termine, come celebrità letteraria) dapprima, ma che in un paio di stagioni diventano con regolare metamorfosi cinghiali (seccatori), un certo Ugo Foscolo, immancabile nella bottega dell’editore Murray e nei ritrovi letterari. Brutto come un babbuino e insopportabile presuntuoso schiamazzava, infuriava e disputava senza aver nemmeno un’idea dei principi secondo i quali gli uomini di giudizio ragionavano, e strepitava tutto il tempo come un maiale quando gli tagliano la gola».
Nonostante il suo caratteraccio, a Londra fu comunque apprezzato per l’innegabile ingegno. La vita lussuosa della capitale inglese, però, gli farà spendere più denaro di quanto potesse permettersi, e fu perciò costretto a lavorare sempre più alacremente, per pagare debiti che si accumulavano altrettanto velocemente. Finché nel 1822 non ritrova la figlia Floriana, nata in Francia fra il 1805 e il 1806 dalla relazione con Lady Fanny Emerytt Hamilton, dalla quale riceve le tremila sterline da lei avute in eredità da nonna Lady Walker, che Ugo investe in una magnifica villa, il Digamma Cottage, facendola arredare con gusto raffinato e dove vive serenamente fino al 1823, quando il numero dei creditori torna a farsi pressante ed è quindi costretto a lasciare tutto per andare ad alloggiare in un modesto appartamento, nel quale continua a scrivere incessantemente, soprattutto opere di critica letteraria, finché, ridotto agli stremi, vende tutti i suoi libri ed impartisce lezioni private. Rifiuta, infine, fin troppo sdegnosamente, il sincero aiuto di alcuni amici e preferisce vagare sotto falso nome, girando Londra di quartiere in quartiere, per sfuggire ai creditori e all’arresto. Ma la sua fibra comincia a cedere, vuole morire nella sua terra patria, però è troppo tardi, ormai il destino sta per compiersi. Trattenuto da varie incombenze, da Londra non riuscirà mai a partire e morirà in terra straniera.
Davanti alla sua tomba inglese si inginocchieranno dei grandi italiani, come Giuseppe Mazzini e Garibaldi, che, assieme a tanti altri eroi del Risorgimento, considereranno Ugo Foscolo un esempio e un maestro di grandi virtù, capace di accendere gli animi patriottici. Tardivamente, nel 1871, le spoglie del vate giungeranno poi in patria, ad unificazione italiana compiuta, venendo trasportate a Firenze per esser tumulate in Santa Croce e poter alfine riposare accanto a quelle degli altri compatrioti illustri, che egli stesso aveva celebrato nei suoi Sepolcri; lasciando pertanto vuota, dimenticata ed in progressivo degrado l’arca di Londra.
Nel 2011, però, come abbiamo detto all’inizio, quel sepolcro è stata restituito ad adeguato decoro e nuovo splendore, per merito del Foscolo Appeal Fund, un’associazione benefica formata da italiani residenti a Londra, che ha voluto ricordare con questo gesto, assieme al poeta Foscolo, anche e soprattutto i valori sprigionanti dalla sua esperienza di uomo e di letterato: «Il lavoro di restauro della tomba – ha infatti detto l’avvocato Rocco Franco, quel 10 settembre – è stato terminato in concomitanza con le celebrazioni per l’anniversario dell’unità d’Italia. Cioè di quella patria che è uno dei valori insopprimibili esaltati da Foscolo nella sua “religione delle illusioni”, insieme all’amore, alla poesia, alla bellezza, all’arte, alla libertà e alla giustizia».
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L’accordo di cooperazione per il Centralny Port Komunikacyjny tra la Polonia e la Gran Bretagna è stato firmato mercoledì dal Viceministro delle Infrastrutture Marcin Horała e l’Ambasciatore inglese in Polonia Graham Stuart in modalità telematica. “Con la firma di un memorandum anglo-polacco, abbiamo dato il via alla collaborazione tra i nostri Paesi per la costruzione del nuovo snodo dei trasporti di Varsavia” ha affermato Horała, ribadendo la partecipazione inglese nei progetti architettonici della struttura. Le proposte sono state presentate da aziende di fama mondiale quali Zaha Hadid Architects, Foster & Partners, Chapman Taylor, Grimshaw, Benoy, Pascall & Watson, Woods Bagot, Populous e KPF. “Il CPK è un’opportunità per dimostrare l’innovazione e le ambizioni della Polonia contemporanea” ha dichiarato l’Ambasciatore Stuart. Anche il Presidente della società Centralny Port Komunikacyjny Mikołaj Wild si è detto soddisfatto dell’accordo. Il progetto per un nuovo snodo centrale dei trasporti tra Varsavia e Łódź (Centralny Port Komunikacyjny in polacco) integrerà il trasporto aereo, ferroviario e stradale nell’area. Lo snodo si troverà a quasi 37 chilometri a ovest della capitale e secondo le previsioni gestirà 45 milioni di passeggeri all’anno.
Immaginate il calore dei salentini unito al rigore professionale polacco, aggiungete una spruzzata di creatività mediterranea e l’ispirazione all’essenzialità nordica ma calata nel senso della moda milanese, shakerate tutto e quello che ne esce è Karolina Dafne Porcari, eclettica attrice di teatro e cinema ma anche regista e, in caso di bisogno, produttrice.
fot. Gosia Popinigis
La sua è una interessante storia che si sviluppa lungo 2300 km, sulla direttrice Lecce-Milano-Cracovia-Varsavia, tra amori familiari italo-polacchi, studi di filosofia e di recitazione e soprattutto tanto lavoro.
Com’è che un’allieva del Liceo Classico Palmieri di Lecce decide un giorno di diventare attrice?
“A 16 anni la compagnia Koreja, che fa teatro d’innovazione, propone agli allievi del nostro liceo un provino. Mi son detta perché no. Sono salita sul palco senza alcuna esperienza o preparazione ed ho capito subito che quella era la mia vita. Da parte familiare l’unica eredità artistica veniva da mia madre che aveva frequentato la Scuola Nazionale di Danza di Varsavia.”
L’emozione che hai provato salendo sul palcoscenico e che ti ha fatto capire che era quello il lavoro che volevi fare, era la sensazione di chi sa che entrando in un ruolo si esce da sé stessi?
“Senza dubbio sì. Il teatro è terapeutico per chi lo fa, paradossalmente molti attori sono timidi e salire sul palco li aiuta a liberarsi dei propri imbarazzi, metti una maschera che ti affranca dal tuo costume quotidiano e ti offre una enorme libertà di espressione e di coscienza. Affronti senza filtri il pubblico ma non sei più tu. E poi c’è la straordinaria razione di adrenalina che provi ogni volta che sali sul palco e ogni volta che finisce lo spettacolo e ascolti i giudizi. Un up and down continuo e dissociante. In altri campi artistici c’è comunque uno strumento su cui lavori o un’opera che realizzi e l’attenzione cade su quella, in teatro no l’attenzione è costante al 100% su di te.”
Dopo l’esperienza con i Koreja cos’è successo?
“Infatuata dal salire sulla scena ho iniziato a frequentare laboratori di teatro e all’esame di maturità classica ho portato greco orale preparando, tra i vari testi, la Medea di Euripide che tuttora sogno prima o poi di interpretare. Nel momento di iscrivermi all’università però la paura ha sopraffatto la passione, la razionalità ha prevalso sul desiderio e così, seguendo gli auspici familiari, scelsi Lettere e Filosofia alla Cattolica di Milano. L’impatto con la città è stato duro, sono passata dal calore umano salentino al gelo dei milanesi, da una Lecce a misura d’uomo, piccola e piena di affetti ad una Milano frenetica, competitiva ed in cui l’apparire è fondamentale, dopotutto è la capitale della moda. Ma bisogna ammettere che Milano è forse l’unica vera metropoli cosmopolita italiana con una offerta culturale straordinaria che mi ha dato l’opportunità di assistere a centinaia di spettacoli e rassegne teatrali. Avevo l’abbonamento al Teatro Piccolo che praticamente diventò casa mia, lì ho conosciuto le diverse scuole teatrali europee ed ho capito che ero affascinata soprattutto dagli spettacoli delle compagnie dell’est e del nord Europa, tra questi mi piacque molto “Yvonne la principessa di Burgund” del poeta polacco Witold Gombrowicz messa in scena da una ensemble svedese. La svolta avvenne dopo 2 anni e mezzo di università dove, nonostante frequentassi indirizzi teorici di storia del teatro, teatrologia e drammaturgia, mi mancava il contatto col pubblico. Avevo 21 anni. Ebbi il coraggio di guardarmi allo specchio e chiedermi se veramente volevo abbandonare definitivamente il mio sogno di diventare attrice. Questa volta prevalse il coraggio e decisi di provare l’esame per entrare alla Scuola Drammatica di Cracovia. Fu un altro shock ambientale.”
Il tuo essere italo-polacca perfettamente bilingue non ti ha aiutata?
“Krew Boga”, di Bartosz Konopka
“Non mi ero resa conto che pur essendo bilingue il mio polacco era italianizzato. Ho dovuto fare un anno di preparazione linguistica esercitando i muscoli facciali a pronunciare le consonanti polacche! Questo perché volevo arrivare ad una dizione da polacca madrelingua e non da straniera polacchizzata. Poi anche dopo aver superato l’esame il clima universitario era duro, c’era una competizione feroce e le lezioni di improvvisazione erano un calvario. Immaginate lo sforzo intellettuale per combinare spontaneità espressiva col complesso d’inferiorità che avevo nel parlare polacco. Mi ci volle del tempo anche per entrare nelle modalità comunicative e affettive polacche che inizialmente sono evidentemente più fredde di quelle italiane anche se poi col tempo ho scoperto un profondo lato solidale e perfino empatico nei polacchi.”
Quali sono le linee guida dell’insegnamento teatrale in Polonia?
“A livello teorico si studia la storia del teatro dalla Grecia alla Commedia dell’Arte arrivando ai nostri tempi con in più un focus sul teatro polacco. A livello pratico direi che ogni professore ha il suo approccio ma in generale posso dire che prevale una linea post-grotowskiana e la tradizione del metodo Stanislawskij. Dico subito che reputo il teatro polacco, anche quello attuale, tra i migliori al mondo basta pensare a registi come Krzystof Warlikowski e Krystian Lupa. Quello che mi piace di questo tipo di teatro è come si affronta l’animo umano, come si cerchi di toccarne la profondità emozionale. È un approccio che ha del metafisico, con una linea registica essenziale e focalizzata al massimo sul tentativo di capire cos’è l’essere umano e la relazione tra le emozioni e il corpo. In Italia tradizionalmente si fa un teatro più di parola, il regista attraverso l’attore punta a dare una tesi affermativa, ti racconta una tesi, in Polonia invece si valorizza il dubbio, la messa in discussione, la domanda rispetto alla risposta.”
È un’impressione stereotipata o è vero che artisticamente i polacchi tendono a prepararsi senza tralasciare alcun dettaglio mentre l’attore italiano lascia sempre uno spazio all’improvvisazione?
“Zła matka”, fot. Sara Porcari
“C’è del vero soprattutto in teatro dove gli italiani sono portati più ad improvvisare. È un fatto ancestrale, i popoli del nord per secoli si sono preparati ad affrontare i rigori del clima, c’era poco da lasciare all’improvvisazione. Ma nel cinema i registi italiani sono precisissimi e non sempre c’è spazio per l’improvvisazione. Il mio essere italo-polacca mi ha aiutata a sommare improvvisazione salentina e creatività mediterranea con la disciplina del nord, ad esempio nel mio primo cortometraggio che ho diretto “Peccatrice” ero preparatissima nell’aspetto artistico ma dal punto di vista produttivo ho fatto forza sulla fantasia e l’improvvisazione italiana per riuscire a portare a termine il progetto.”
Qual è stato il tuo primo ruolo?
“Zła matka”, fot. Sara Porcari
“Ironia della sorte il mio primo lavoro è stato a Milano. Ho esordito nella parte di Olga nel film “Come l’ombra” di Marina Spada. Un piccolo film d’autore che ha avuto una grande fortuna. Presentato nelle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia del 2006, ha partecipato a numerosi festival internazionali vincendo il premio per la regia al Mar del Plata Film Festival e uscendo poi nelle sale italiane nel 2007. Io facevo la parte di una ucraina e ho dovuto allenarmi a parlare l’italiano da straniera, esperienza servitami poi per un cameo in “Tutti i santi giorni” di Paolo Virzì.”
E il primo lavoro polacco?
“Al Teatr Dramatycny di Varsavia, ovvero al Palazzo della Cultura, pochi mesi dopo essermi laureata, nella piece “Tempo d’amare, tempo di morire” di Fritz Kater del giovanissimo regista Tomasz Gawron. Poi subito dopo ho iniziato a collaborare con il Teatr Ludowy di Cracovia. In Polonia faccio anche tanta tv e talvolta spot pubblicitari che, nella vita spesso imprevedibile di un attore, sono comunque una fonte di reddito stabile. È attualmente in onda su Canal+ la serie comico-poliziesca “Mały Zgon” diretta da Juliusz Machulski, regista del film cult “Sexmisja”. Interpreto il ruolo di Carla, un’italo-polacca scappata dalla famiglia meridionale legata alla ‘ndrangheta e ritrovatasi moglie di un mafioso polacco legato al cartello lituano!”
Ti ho vista recitare in Zla Matka, spettacolo in cui sei autrice, regista e attrice protagonista insieme a Malgorzata Bogdanska. La tua vena artistica è attratta dalla regia?
“In realtà io volevo solo recitare. Poi quando è nato mio figlio Teo, che oggi ha sette anni, mi sono sentita sempre più ferrata sul tema dell’essere madre e ho sentito il bisogno di raccontare la maternità oggi. Ovvero il dover rispondere contemporaneamente e perfettamente a tutte le aspettative sociali e quindi essere: una brava madre, una brava moglie, una brava casalinga, mantenere un look sexy e portare a casa uno stipendio. Ma se in teatro lo rappresento nella vita non ce l’ho fatta perché ho fatto prevalere l’essere madre e il continuare a lavorare e così sono tornata single.”
Marito italiano?
fot. Sara Porcari
“No polacco ma cambia poco, in un passaggio di Zla Matka racconto che ho avuto un compagno italiano, uno polacco e uno tedesco, a parte il passaporto non c’è nessuna differenza hanno tutti il patriarcato nel sangue e poi in fondo ce l’ho anch’io perché il primo amore è mio padre! Detto questo non nascondo che per la nostra generazione, uomini inclusi, tenere insieme famiglia, lavoro e amicizie in un mondo che rapidamente cambia valori e ritmi sociali non è affatto facile. Gli uomini sposati ad esempio se non rimangono fighi, se non escono con gli amici a divertirsi vengono considerati degli sfigati pantofolai. In questa atmosfera culturale il mio impegno principale ora è crescere mio figlio come uomo sicuro di sé ma sensibile, empatico e aperto.”
Come valuti la produzione cinematografica contemporanea in Italia?
“Siamo in una bella fase. Ci sono tanti bravi registi più o meno famosi che mi piacciono: Sorrentino, Guadagnino, Saverio Costanzo, Paolo Genovese, Alice Rohwacher. Avverto un’ondata di freschezza artistica sia nel cinema che nel teatro.”
E in Polonia?
“Quando sono arrivata in Polonia una ventina d’anni fa non c’era molto di interessante, oltre alla grande eredità di registi leggendari come Wajda e Kieslowski. Ma da qualche anno il cinema polacco è diventato una fucina di ottimi registi i cui film vincono oscar e premi nei vari festival, penso a Pawlikowski, Szumowska, Komasa e alle giovani Jagoda Szelc, Kalina Alabrudzinska e poi Agnieszka Smoczyńska. Nell’arte si va molto a cicli ed ora dopo un periodo piuttosto grigio la Polonia sta godendo di una sfornata di grandi professionisti.”
E tu a quali progetti ti stai dedicando?
“Voglio dirigere il mio primo lungometraggio, ma prima realizzerò un altro corto. E poi mi auguro di avere la possibilità di recitare di più in produzioni italiane.”
Come si vive a cavallo tra due paesi che si rincorrono e attraggono nonostante una storia molto diversa?
fot. Sara Porcari
“È stimolante e arricchente vivere contemporaneamente due culture e soprattutto aiuta a vederne le differenze. Per esempio se in Polonia, diversamente dall’Italia, c’è una audience sempre numerosa e attenta nei teatri e nei cinema un qualche merito va anche al regime della PRL in cui la cultura e l’arte, seppur piegati al giogo della censura, avevano un posto importante come valore sociale, anche i registi ad esempio riuscivano ad essere finanziati e a produrre in modo più facile rispetto ad oggi epoca in cui il mercato ti stritola e per riuscire a realizzare un primo film devi attendere 6 o 7 anni, uno spreco di tempo assurdo.”
Ultimamente in Polonia c’è una copiosa produzione di film storici ma perché nessuno si dedica ad un tema importante come la rilettura critica dei 40 anni della PRL?
“Sono contenta e dico anche che era ora che la Polonia realizzasse dei film d’epoca, anche un po’ pomposi e monumentali, l’importante però è che la sostanza del messaggio non si riduca al dipingere i polacchi solo come valorosi o vittime, senza sfumature in mezzo, e il resto del mondo come i cattivi. Per esempio il film Legion ha scene di guerra eccezionali, una vera cinematic experience, ma dalla storia ne esce un messaggio limitato. In questo senso preferisco il lavoro più autocritico di Smarzowski.”
Forse ci vorrebbe un Pasolini oggi in Polonia?
“I’ll find you”, di Martha Coolidge
“Assolutamente sì. Pier Paolo Pasolini è stato un intellettuale radicale, onesto, aperto, libero dai pregiudizi ma allo stesso tempo esegeta dei valori tradizionali. Un artista che con la sua opera ha marchiato col fuoco tanti problemi della cultura e della società italiana e lo ha fatto in modo tale che poi, dopo di lui, difficilmente si potevano coprire con l’ipocrisia i fatti storici e quei difetti che riguardano una parte della società italiana. È stato salutare, ha aiutato il paese a psicanalizzarsi almeno dal punto di vista artistico e intellettuale e di conseguenza ad evolvere la propria identità nazionale. Ecco oggi un’operazione del genere sarebbe necessaria in Polonia per aiutare l’identità polacca a crescere oltre l’aspetto patriottico, oltre alla dicotomica visione del polacco eroe o vittima. C’è bisogno di intellettuali profondi e liberi che aiutino a compiere il passaggio fondamentale da una identità di insicurezze che ha bisogno di aggrapparsi al nazionalismo ad una identità più serena fondata su radici culturali aperte e profonde, quali in effetti la Polonia ha. Basta riscoprirle con un po’ di coraggio e autocritica.”
A proposito di coraggio tu sei italo-polacca perché tuo padre con coerenza e, appunto, coraggio ha voluto provare in concreto cosa volesse dire vivere in un paese comunista?
“Ojciec”, di Artur Urbański
“Esattamente. A Varsavia gli ideali di sinistra di mio padre sbatterono sulla realtà del comunismo polacco facendogli capire che ci sono teorie giuste ma a volte inapplicabili senza contare che da parte di mia madre c’era tutta la sofferenza per aver perso, requisita dalla Stato, e poi ricomprato la casa dove tuttora viviamo. Mio padre scelse di salire da Lecce per fare il professore a Varsavia e si innamorò di una studentessa, ovvero mia madre, in un periodo storico in cui tutto era più complicato anche perché lui era separato ma non divorziato. La cosa buffa è che mia madre per poter andare a vivere a Lecce dovette sposare… il fratello di mio padre! Un escamotage formale, servito solo per scendere in Italia, che ha funzionato anche se poi lei bella, alta e bionda proveniente dalla Polonia ci ha messo un po’ a farsi accettare da una famiglia tradizionalista salentina.”
E nella tua personalità come convivono le culture dei due paesi?
“Dicono che tutte le persone bilingui non lo siano mai veramente al 50%. Ci sono aspetti della vita in cui funziona meglio una cultura e una lingua ed è così anche nel mio caso. Nel lavoro mi sento più polacca, se penso al teatro la lingua polacca prevale. Negli affetti e nella vita domestica sono più salentina”.
E in cucina sei una fusion?
Karolina Porcari
“Ai fornelli mi sento più italiana, anche perché si usa meno carne e io sono vegetariana da tanti anni, ma pure nelle ricette polacche si trovano tante verdure interessanti come i tuberi e mi diletto in creme di vegetali con ispirazioni asiatiche. Il mio punto forte restano i primi italiani, anzi salentini perché chiunque conosca l’Italia sa che a proposito di identità ci si sente prima appartenenti alla propria città, poi alla propria regione e alla fine all’Italia e questo rende assolutamente diversi italiani e polacchi. Un aspetto che se interpretato nel modo giusto rafforza la conoscenza di sé, della comunità in cui si vive, la propria autostima e questo arricchisce l’Italia di un bagaglio di tradizioni e conoscenze insuperabile.”
Perchè Dafne?
“Il mio primo nome Karolina è stato scelto da mia madre. Era il nome della sua bisnonna partigiana a cui era molto legata. Il secondo nome Dafne è stato scelto da mio padre perché, quando mi vide per la prima volta, mi trovò molto bella e pensò a Dafne, la fanciulla trasformata in “Alloro” dalla madre Gea per sottrarla alle voglie di Apollo e da Apollo portata alla sacralità delle foglie che cingono la fronte dei migliori. Direi che in famiglia abbiamo tutti una mania per la mitologia greca… mio figlio si chiama Teo!”
“I’ll find you”, di Martha Coolidge
Na Wspolnej, odcinek 2989
foto: TVN/Radek Orzel
Karolina Porcari, Michal Mikolajczak
Na Wspolnej, odcinek 3003
foto: TVN/Radek Orzel
Karolina Porcari, Michal Mikolajczak