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“Pane e sale”, successo polacco al Festival di Venezia

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La Biennale di Venezia, fot. ASAC, ph G. Zucchiatti

“È una storia sulla solitudine e sul distacco sempre più profondo tra le persone.” Così il regista Damian Kocur definisce il suo film “Pane e sale”, vincitore del premio speciale della giuria alla 79^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel concorso Orizzonti. Come protagonisti vediamo i fratelli Tymoteusz Bies, pianista e vincitore di numerosi premi – attualmente lavora come assistente presso l’Accademia di Musica Karol Szymanowski di Katowice – e Jacek Bies, che a parte studiare pianoforte, insieme al suo gruppo musicale crea la propria musica.

Tymek, pianista e studente dell’Accademia di Musica di Varsavia, torna a casa per trascorrere le vacanze con la madre e il fratello Jacek, anch’egli pianista, che però non è entrato nell’Accademia e trascorre il tempo con gli amici. L’unico intrattenimento nella piccola città sono gli incontri con gli amici, il bagno nel vicino fiume e gite al kebab locale, gestito da due stranieri. Le conversazioni superficiali sul nulla, un senso dell’umorismo comprensibile solo agli iniziati si alternano a scene di profonda riflessione mostrate perfettamente dalle emozioni visibili sui volti dei personaggi. Un’elegia sulla noia o un ritratto perfetto della vita quotidiana comune a molti luoghi in Polonia? Questa routine quotidiana è intervallata da piccoli atti di violenza che alimentano una spirale di odio.

Il tuo film è in parte basato su una storia vera, cosa ti ha colpito così tanto da volerla portare sullo schermo?

Damian Kocur: Raccontando una storia parto sempre da un evento oppure da un fatto che qualcuno mi ha raccontato e su questo costruisco tutto il resto. Anche un semplice evento può avere un significato metafisico o universale e dice sul mondo più di qualsiasi altro racconto epico. Cesare Zavattini, un importante esponente e teorico del neorealismo, diceva che un regista partendo da una cosa molto semplice può costruire una grande storia. Anch’io la penso così e quindi costruendo il mio film sono partito da un fatto di cronaca avvenuto in una cittadina polacca un paio di anni fa. Un immigrato che lavorava in un bar accoltellò a morte un ragazzo di circa vent’anni. Dopo la tragedia, la comunità locale e tutto il paese si convinsero che l’omicidio era avvenuto per motivi religiosi. Ci furono inviti a boicottare i ristoranti arabi, o addirittura a uccidere i musulmani. Le nuove culture che stanno emergendo nel nostro paese negli ultimi anni sono spesso una sfida per la nostra società molto omogenea. Ma il miofi lm non parla certo di immigrati. Un protagonista importante e onnipresente nel film è la violenza, che scatena un effetto domino. Inoltre, la mia cara amica, Marta Konarzewska, mi ha fatto capire che questo fi lm, in qualche modo, parla anche di me. L’approccio del protagonista, la sua arroganza nei confronti di questo ambiente, il parziale disaccordo con ciò che lo circonda. Sento che nel fi lm ci sono molti dei miei sentimenti e pensieri.

La stessa storia ambientata in una grande città non avrebbe avuto lo stesso significato?

DK: Conosco bene i piccoli paesini, perché ci sono cresciuto e ci ho vissuto fino all’età di 20 anni. I due protagonisti, Tymek e Jacek, vengono da Mikołów, una città piccola vicino a Katowice, queste origini ci hanno aiutato a trattare il tema. In tali città, anche i più piccoli

Tymoteusz Bies, Nikola Raczko

cambiamenti si notano subito. Mi sembra che questo possa essere molto positivo ma a volte possa portare a episodi negativi, perché gli ambienti così piccoli sono più propensi alle tensioni. Ricordo che nel nostro paese ogni nuovo evento attirava l’attenzione di tutti. Comunque non è solo una questione di dimensioni della città. Questa storia potrebbe anche essere accaduta in un quartiere, per strada o tra i membri di un piccolo gruppo di persone.

La forza del film sta nella sua naturalezza e nel fatto che tutto quello che succede assomiglia molto alla vita reale. Perchè hai trasposto la storia proprio in questo modo così autentico e diretto?

È il risultato di un metodo che sto usando da molto tempo. Lavoro con attori non professionisti e anche questo dà l’effetto del realismo. Esiste un fenomeno chiamato volontaria sospensione dell’incredulità (willing suspension of disbelief). Appare quando lo spettatore sa di guardare un film, ma percepisce la storia come verosimile. Crede nelle emozioni pur sapendo che si tratta di una finzione, grazie a questo fenomeno possiamo vivere il cinema. Io invece cerco di minimizzare questa sensazione nel pubblico, per dare alle persone la sensazione di guardare qualcosa di molto autentico, perché anche a me piace guardare i film del genere. Pertanto, quando qualcuno ride o piange nel mio film, è un’emozione vera. Ovviamente a volte è innescata da una cosa completamente diversa da quella che è nella scena, ma è reale. Gli attori non professionisti possono dare questo effetto perché non si controllano così tanto e se si fidano del regista, si lasciano andare. Ho l’impressione che gli attori professionisti non riescano mai ad abbandonarsi veramente, perché pensano sempre al personaggio che interpretano.

Tymoteusz Bies, Damian Kocur, Jacek Bies, La Biennale di Venezia, fot. ASAC, ph G. Zucchiatti

Come vi siete trovati nella veste di attori e in un film girato in maniera molto innovativa?

Tymoteusz Bies: Mi sembra che, paradossalmente, sia più facile recitare senza testo scritto. Secondo me, se riesci a superare la barriera comunicativa, improvvisare sarà sempre più naturale che usare la lingua scritta nella sceneggiatura. A livello di dialogo non abbiamo avuto difficoltà. Naturalmente, una cosa importante era anche il fatto che la troupe sul set era piccola. Ci sono stati momenti in cui i confini tra il film e la vita reale sparivano quasi del tutto.

Jacek Bies: La mia ragazza ha detto a un certo punto che stavo parlando in modo tale che non riusciva più a capirmi. Abitavamo nella casa dei nostri protagonisti, non in un hotel. Ho giocato al videogioco Fifa tutta la notte in salotto. La differenza tra il film e la realtà era che anche i ragazzi del kebab venivano da noi per. giocare ai videogiochi.

TB: Comunque, sarei molto lontano dal descrivere questa formula come strettamente documentaria. Naturalmente, tutte le caratteristiche, il modo di comportarsi e il linguaggio assomigliano alla nostra vita reale, ma il film racconta una storia completamente immaginaria. Chiamarlo documentario, secondo me, gioca a suo sfavore. Questa è una storia di fantasia con elementi di improvvisazione. Vorrei evitare anche un’eccessiva identificazione con il protagonista, perché parla la mia lingua, ha il mio nome, ma non sono io. Penso che la bellezza di questa storia stia nel fatto che si trova al confine tra verità e finzione.

Ci sono maestri del cinema italiano che ti ispirano?

DK: Mi piacciono molto i documentari, ad esempio “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi. Adoro questo fi lm. è un documentario, ma raccontato come un fi lm di finzione di massimo livello. Recentemente ho scoperto e ammiro molto Michelangelo Frammartino. Sono entusiasta del fi lm “Il buco”, che l’anno scorso era in concorso principale alla Mostra del Cinema di Venezia. Lui non fa spesso film. “Le quattro volte” lo ha fatto dieci anni fa. Finanziare un film completamente privo di narrazione è una vera sfida. Non posso permettermi ancora di fare fi lm del genere, ma comunque ho realizzato il mio fi lm senza compromessi. Non abbiamo preso strade facili, è stato piuttosto un esperimento e un rischio, sia in termini di casting che di metodo di realizzazione. Jurek Kapuściński, il nostro produttore di Studio Munk, ci ha dato una grande libertà. Quando gli ho mostrato il primo materiale, ho pensato che mi avrebbe detto di tagliare le scene per velocizzare e non annoiare lo spettatore. Jurek invece ha detto che quella scena doveva essere lunga perché così assomiglia al cinema di Antonioni. Mi sono sentito libero di poter sperimentare e così abbiamo introdotto molte soluzioni che erano al limite delle arti audiovisive. La versione fi nale di alcune scene e l’effetto quasi metafisico, è stata una questione di montaggio. Quando fai un film del genere, è proprio il montaggio che ti permette di raccontare qualcosa in più.

Lo spettatore di oggi è pronto per un cinema del genere?

Jacek Bies, Tymoteusz Bies

DK: So che questo film non avrà un vasto pubblico e per molte persone sarà difficile perché sono abituate a una sorta di convenzionalità nel cinema. Scontrandosi con un modo completamente diverso di raccontare e con le emozioni diverse, non sapranno cosa farne. Ma quando dopo la proiezione qualcuno viene da me e sento che ha avuto la sensibilità e la competenza per riconoscere un altro tipo di fare cinema, sono estremamente contento. Questo è più importante per me che avere migliaia di spettatori al cinema. Apprezzo molto quando qualcuno viene da me perché ha un sincero bisogno di parlare di ciò che ha visto sullo schermo.

Dopo la proiezione a Venezia hai detto che preferisci il silenzio nel cinema, ma nel caso del tuo film è molto forte l’abbinamento tra musica classica e la violenza che vediamo sullo schermo.

DK: La musica classica nel film aggiunge una sorta di sentimentalismo alle scene. è un elemento cliché e ho sempre pensato che non avesse senso esaltare ulteriormente le emozioni. Invece in questo caso è esattamente come hai notato, Chopin dopo un atto di violenza è ancora più spettacolare e significa una specie di disaccordo con ciò che è stato mostrato sullo schermo.

La cultura e la musica ci possono salvare?

TB: Un interessante punto di partenza per l’interpretazione di questo film può essere questo contrasto tra la musica classica e una vita piena di violenza, che fa vedere perfettamente che l’arte è impotente di fronte alla violenza. L’arte può parlare di qualcos’altro e in qualche modo stimolare la sensibilità ma rimane impotente e, secondo me, questa impossibilità della musica di cambiare le persone è un buon indizio per capire il rapporto tra i personaggi. Credo che l’arte non possa salvarci, ma in qualche maniera permettere di prendere le distanze da una certa brutta realtà. Quello che mi piace di più nella musica e nel suonare è che mi dà, almeno per un po’, un distacco dalla realtà, è una sorta di fuga. E queste fughe sono estremamente importanti per me, comunque questo avviene a un livello molto personale, non a livello sociale.

DK: Io mi chiedo anche fino a che punto l’arte arriva al pubblico, in Polonia per esempio, la situazione non è buona. L’arte non è aperta e attraente, ma esclusiva ed ha sempre meno pubblico. Le persone scelgono piuttosto l’intrattenimento facile, come la televisione. Negli anni Ottanta, c’erano solo due programmi televisivi, ma si sapeva che la sera ci sarebbe stato un programma dedicato al cinema dove si parlava dei film in maniera interessante e c’erano le proiezioni di alto livello. Oggi ogni informazione deve essere veloce con molti stimoli e in una forma adatta ai social media con il focus sull’immagine e non sul contenuto. Non c’è alcuna riflessione, perciò non mi illudo che l’arte possa cambiare qualcosa, perché l’arte arriva a sempre meno persone. È bello vedere una sala piena qui, al festival, ma questa è una situazione unica ed elitaria a cui non tutti hanno accesso. Artur Liebhart, direttore del festival Millenium Docs Against Gravity, mi ha detto che il suo festival è la rassegna più popolare tra il pubblico e questo è molto incoraggiante, ma mi piacerebbe credere che per i ventenni di oggi il cinema sarà sempre importante e che faranno film. Non voglio essere un rappresentante dell’ultima generazione che gira film seriamente.

Morawiecki: “adegueremo la normativa sui parchi eolici, per velocizzare l’arrivo dei fondi UE”

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl.

Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki spera che la legge sui parchi eolici sarà proseguita nella seduta successiva e subito dopo, cioè approssimativamente tra due settimane, la proposta del PNRR verrà presentata. La legge riguarda la liberalizzazione della ricevibilità della realizzazione dei parchi eolici terrestri. Secondo Morawiecki le norme attuali relative ai parchi eolici sono tra le più rigorose, se non le più rigorose in Europa. Tuttavia la Polonia ha bisogno dei parchi eolici per non bruciare il carbone colombiano o indonesiano che sono troppo costosi, e il carbone russo non si utilizza più perché c’è l’embargo. Il progetto dell’emendamento della legge sui parchi eolici dello Stato è stato presentato lo scorso luglio e prevede che la decisione sulla possibilità di localizzare nuovi parchi eolici e sullo sblocco della possibilità della costruzione di abitazioni nelle vicinanze di questi parchi eolici spetterà ai comuni.  Nonostante la Commissione europea lo scorso giugno abbia accettato il PNRR polacco, i fondi non sono stati erogati perché, secondo la Commissione, il PNRR polacco ha qualche punto importante da soddisfare prima di ricevere qualsiasi pagamento.

https://www.pap.pl/aktualnosci/news,1521890,premier-wniosek-w-sprawie-kpo-zlozymy-kiedy-bedzie-procedowana-ustawa?

Krajewski: il governo sbloccherà fondi record per sostenere gli investimenti a Varsavia

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Lunedì scorso, il deputato del PiS Jarosław Krajewski ha affermato che il primo ministro Mateusz Morawiecki ha rilasciato un commento da cui si deduce che saranno sbloccati fondi record per sostenere direttamente gli investimenti nella capitale. Il politico ha annunciato che Varsavia riceverà fino a 3 miliardi di zloty in investimenti chiave distribuiti su diversi anni. Krajewski ha menzionato, tra gli altri, la costruzione della metropolitana, il completamento della strada Świętokrzyska, la circonvallazione del centro che collega Praga Południe e Targówek, nonché la costruzione dello stadio Skra e la modernizzazione del Museo della Rivolta di Varsavia. Ha ricordato che finora, da parte del partito PiS, sono stati sostenuti investimenti nella capitale per un importo totale di oltre 342 milioni di euro.

https://www.pap.pl/aktualnosci/news%2C1521903%2Cposel-krajewski-rzad-uruchomi-rekordowe-srodki-na-wsparcie-inwestycji-w

Emendamento alla legge sulla Corte Suprema a rischio incostituzionalità

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Venerdì, il Sejm polacco ha approvato un emendamento alla legge sulla Corte Suprema, che, come attuazione di una delle cosiddette “pietre miliari” della riforma deve garantire che la Polonia riceva fondi europei del Piano di Ricostruzione Nazionale. Tuttavia, Aleksander Stępkowski, un giudice della Corte Suprema, afferma che questo emendamento è incostituzionale su molti livelli. A suo avviso, l’emendamento rappresenta principalmente una minaccia per la conservazione dell’identità polacca. Sottolinea inoltre che il suo testo non è stato creato esclusivamente dal governo polacco, ma principalmente dalla Commissione europea. Secondo l’emendamento, i casi relativi alla responsabilità disciplinare dei giudici sarebbero risolti dalla Corte amministrativa suprema. È prevista anche l’estensione dell’indipendenza della magistratura. Stępkowski afferma che l’adozione dell’emendamento in questa forma creerebbe le condizioni per creare pressioni sui giudici. Il motivo dell’adozione dell’emendamento è il riconoscimento da parte del Tribunale Costituzionale dell’incostituzionalità dell’atto adottato dalla Corte suprema nell’aprile 2020.

https://www.pap.pl/aktualnosci/news,1521653,portavoce-della-corte-suprema-promossa-venerdì-novela-sul-sn-na-wielu?

Duo Piazzola a Roma e in Vaticano

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Due giovani musicisti, Janek Pentz e Piotr Zubek, hanno deciso di affrontare il tango di Astor Piazzolla in modo non convenzionale. Il duo ha reso immortale la sua interessantissima versione di questa musica in un CD. Un evento insolito nella loro carriera artistica è stata l’esecuzione di opere di Piazzolla per Papa Francesco in Vaticano (Piazzola era figlio di un emigrante italiano nato in Argentina che ha trascorso la sua infanzia nella Piccola Italia di New York).

Piotr si è laureato presso il dipartimento di jazz e performance vocale della Bednarska di Varsavia e attualmente studia logopedia clinica. Janek, invece, sta terminando gli studi presso il dipartimento strumentale dell’Università di Musica Frédéric Chopin di Varsavia, specializzandosi in chitarra classica. Prima di iniziare la sua formazione musicale di tipo accademico, ha iniziato a sperimentare la tecnica del fi ngerstyle, una tecnica chitarristica che permette di suonare contemporaneamente melodia, linea di basso, percussioni e accordi. Questo approccio permette di suonare da soli, creando l’impressione della presenza di più musicisti o addirittura di un intero gruppo.

Come vi siete conosciuti? Piotr, perché hai scelto Janek e la sua chitarra?

PZ: È semplice! Andiamo d’accordo! Tempo fa ci siamo conosciuti all’incontro degli insegnanti. Io con il mio programma musicale e Janek con il suo. A quel tempo non cercavo qualcuno che suonasse uno strumento, cercavo una persona con un’anima simile alla mia e l’ho trovata.

JP: Piotrek può confermare come sui brani musicali abbiamo lavorato insieme. Facevamo brainstorming, cercando delle direzioni musicali non strumentali. Quello che era per noi la cosa più importante, “di cuore”, era la linea musicale, la quale è in modo pazzesco distintiva, così “piazzolana”, che qualsiasi cosa avessimo fatto, sarebbe sempre stata la sua musica. Giravamo intorno a questo nucleo, cioè la melodia, e cercavamo di trovare gli spazi musicali, che all’inizio sembravano essere assenti ed invece si riusciva ad abbinarli con le linee musicali che ci interessavano, che erano nostre. A questo punto ammiravo il potenziale di Piotrek per quanto riguarda la sua libertà di pensare e improvvisare. Da parte mia ho aggiunto la tecnica del fingerstyle.

Com’è successo che avete suonato per il papa in Vaticano?

PZ: Grazie alla gentilezza dei diplomatici polacchi, degli imprenditori e con l’immenso sostegno della nostra amica, l’insegnante d’inglese e tedesco Ewa Drobek, siamo riusciti ad
incontrarci con i cardinali polacchi in Vaticano. Abbiamo suonato per Papa Francesco e, grazie a questo soggiorno, abbiamo trascorso molto tempo a Roma. Abbiamo suonato nelle case d’accoglienza ed è stata un’esperienza incredibile. Temevamo che si trattasse di incontri di convenienza. Ci è capitato di suonare per beneficenza in molti posti in Polonia e sappiamo cosa significhi suonare ai concerti “forzati”.

Piotr, che cosa canti durante questi incontri, Piazzola?

PZ: Diverse canzoni! In polacco e in altre lingue. Molte opere popolari, ampiamente conosciute.

Cosa avete suonato nelle case d’accoglienza romane?

PZ: Piazzola, ma anche “Canzone lunare”. È un brano con il titolo italiano ma il testo polacco. È una composizione di Janek. Ne ero entusiasta e ne ho scritto il testo.

JP: Si è scoperto che in queste case c’erano solo uomini tra i 30 e i 60 anni. Non sapevamo se avrebbero voluto ascoltarci.

Qualcuno vi ha accompagnato?

PZ: Certamente! Il cardinale Krajewski, elemosiniere papale che si prende cura di questo posto. Nonostante Krajewski sia un ecclesiastico di alto livello è molto vicino a questa gente. Non ha potuto essere presente ai nostri concerti però dopo ci ha incontrato. Purtroppo, non sappiamo parlare italiano. Abbiamo cercato di comunicare con gli ospiti che non conoscevano altre lingue oltre all’italiano. Sapevamo qualche parola e lo spagnolo che grazie alle similitudini ci ha aiutato un pochino.

JP: La cosa interessante è che una mezz’ora prima del concerto, quando siamo arrivati e abbiamo iniziato a prepararci, loro erano già seduti e stavano aspettando.

PZ: Finito il nostro primo brano scoppiano gli applausi e qualche grido di approvazione! Questi uomini di stazza imponente si alzano in piedi, applaudono, si rallegrano e hanno le lacrime agli occhi!

Con quale pezzo avete cominciato il concerto?

JP: Con il brano di Astor Piazzola, con testo di Horacio Ferrera “Chiquilín De Bachín” che inizia con le parole: “di notte un angelo con la faccia imbrattata / vende le rose ai tavolini della sala da bowling Bachín”. Bachín è il ristorante che Piazzola frequentava volentieri con i suoi compagni del primo gruppo, tra cui c’era Horacio Ferrer. La canzone è triste, parla della gente di strada.

PZ: Questa musica li ha commossi! Ci hanno ringraziato, ci hanno stretto la mano. E sebbene conoscessero solo poche parole in inglese e noi ne conoscessimo altrettante in italiano, abbiamo sentito la gratitudine e la grande gioia che ci hanno trasmesso.

JP: Questo ci ha davvero incoraggiato. È stato uno dei più bei concerti che abbia mai fatto in vita mia. Pur avendo suonato completamente a livello acustico.

In quali altri posti avete suonato a Roma?

PZ: Abbiamo suonato dove abitavamo cioè dalle suore Orsoline. È il posto in cui è stata conservata la stanza di Sant’Orsola Ledóchowska. Ci siamo esibiti nella bellissima cappella. Non tutte le suore conoscevano il polacco, però una di loro traduceva le nostre parole in italiano, quindi siamo riusciti a comunicare.

Pensate di preparare qualcosa con la musica italiana?

JP: Certo! La musica italiana ci piace un sacco. La lingua italiana canta. Entrambi vogliamo impararla. Anche perché l’episodio italiano verrà ripetuto quest’anno!

 

Mestiere traduttore, fedeltà a se stessi

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Jadwiga Miszalska

Quando sogni segretamente di diventare un traduttore è una grande gioia incontrare Jadwiga Miszalska, italianista polacca, studiosa di lettere e professoressa all’Università Jagellonica. Onorata dal Presidente dell’Italia con il Premio Onorificenza Stella d’Italia per il suo lavoro volto ad avvicinare la cultura italiana al lettore polacco, è anche teorica della traduzione e traduttrice.

Cos’è la cultura italiana per un polacco e come viene percepita?

L’Italia è per la Polonia un punto di riferimento costante in termini di cultura e storia sin dal XVI secolo, e anche prima. Ricordo un cliché: sono due paesi che si menzionano reciprocamente negli inni nazionali. L’intero XIX secolo, cioè la lotta per l’indipendenza, il cosiddetto Risorgimento in Italia, e le rivolte nazionali in Polonia, si intrecciavano. Probabilmente abbiamo anche una natura simile. Spesso ci consideriamo una sorta di Italiani del Nord. Queste affermazioni sono banali, ma c’è qualcosa di vero. Inoltre è molto facile fare amicizia con qualcuno che è lontano, invece non sempre andiamo d’accordo con i vicini.

Tanti giovani polacchi si vantano di conoscere l’Italia come le loro tasche, perché ogni anno ci vanno in vacanza. Cosa significa, secondo Lei, conoscere l’Italia?

Si può andare in Italia come turista, fermarsi in un albergo elegante a Bibione, visitare Firenze, Roma e dire che si conosce l’Italia. Secondo me si può conoscere l’Italia in un modo completo quando abbiamo amici italiani e si va in un piccolo paesino con un solo ristorante riservato agli abitanti. Quando visito l’Italia, evito le grandi città. Cerco di scegliere i luoghi che non sono d’interesse turistico, paesini che hanno sempre una qualche chiesetta del 15° secolo. Si deve sottolineare che l’Italia non è definibile in modo univoco. Quando si va al nord e al sud, ci si scontra con due mondi completamente diversi. Dirò di più, ogni regione ha una popolazione con una cultura diversa. Non so se sia possibile conoscere l’Italia pienamente.

Conosciamo la cultura italiana già a scuola, grazie alla Divina Commedia di Dante o ai sonetti di Petrarca. Come l’insegnante dovrebbe introdurre allo studente i testi così difficili per incoraggiarlo a leggere la letteratura italiana?

È un compito difficile. Le Tre Corone, cioè Dante, Petrarca e Boccaccio, i tre grandi scrittori del tardo medioevo, sono difficili da comprendere non solo per i polacchi, ma anche per gli italiani, soprattutto Dante. È difficile, quindi, richiedere a uno studente polacco di entrare facilmente in questa tematica. Gli insegnanti dovrebbero sottolineare che questi autori scrivevano in volgare, perché tutta la letteratura medievale italiana è stata scritta in lingue vernacolari; queste erano lingue moderne, a volte chiamate come dialetti. Penso che l’insegnante debba prestare attenzione a ciò che è diverso e collega entrambe le culture, ovvero il fatto che il Medioevo in Polonia era diverso dalla realtà italiana, proprio in termini di uso della lingua, cultura di corte, ecc. Invece quello che ci univa era la base giudeo – cristiana e la cultura mediterranea che, insieme al cristianesimo, è arrivata fino a noi e per noi è molto importante. Petrarca generalmente non viene letto nelle scuole, ad eccezione dei Sonetti a Laura, tradotti da Jalu Kurek. Tuttavia il Canzoniere non è composto solo dai sonetti e non solo da quelli a Laura. La scelta dei testi dipende principalmente dagli insegnanti, pertanto il docente polacco dovrebbe approfondire la sua conoscenza della letteratura e della cultura italiana facendo riferimento a manuali di qualità. Dall’altro lato, so che è difficile perché di solito non c’è abbastanza tempo per completare il programma.

Quali autori della letteratura italiana sono accessibili alle persone che iniziano la loro avventura con la cultura italiana, e quali consiglia a chi vuole confrontarsi con il testo originale?

Quando si parla della letteratura che è facile da leggere e linguisticamente accessibile, consiglio i gialli, ad esempio quelli di Carofiglio o Camilleri (però quest’ultimo utilizza il dialetto siciliano). Tra le letture più ambiziose, vale la pena citare alcuni scrittori apprezzati nel mondo come Italo Calvino o Antonio Tabucchi. Pensando alla letteratura del ‘900, credo che si debbano leggere sempre autori come Tomasi di Lampedusa, Alberto Moravia o Elio Vittorini (compreso “La Conversazione in Sicilia”). Questi sono autori fondamentali.

Si ritiene che un traduttore, per apportare qualcosa di personale alle sue traduzioni, debba occuparsi anche di qualcos’altro, ad esempio essere un giornalista o un politico. Vede differenze tra le traduzioni fatte da persone che provengono da professioni diverse?

Mi occupo di traduzioni nel senso teorico più che pratico. Mi interessa principalmente la figura del traduttore, il cosiddetto translator studies, le ultime tendenze nella teoria della traduzione vanno in questa direzione. Il traduttore non è mai solo un traduttore. Lui vive in un ambiente specifico, ha un certo capitale culturale. Di solito si sostiene che le traduzioni accademiche siano molto corrette, ma non necessariamente avvincenti. Io stessa, mentre traducevo Petrarca, ho passato alcuni mesi a lavorare su un sonetto e mi sembrava sempre imperfetto. Jalu Kurek, che era un poeta e scrittore, aveva tradotto questi sonetti magnificamente, ma a volte si discostava troppo dall’originale. Il poeta-traduttore diventa spesso un poeta più che un traduttore. Attualmente sto scrivendo un articolo sulla traduttrice del 19° secolo Waleria Marrené-Morżkowska, che era una pubblicista, giornalista, scrittrice, femminista e anche traduttrice. Tutte le sue traduzioni dipendono assolutamente da chi era nella vita. Il suo esordio letterario fu una traduzione, poi si guadagnò da vivere scrivendo, mantenendo se stessa e tre figlie. Successivamente, si rivelò come femminista: traduceva i testi delle donne o sceglieva quelli in cui la donna interpreta il ruolo principale. Nessuna delle sue traduzioni è banale. Sceglieva i testi che riteneva importanti e che voleva condividere, scrivendo saggi su questo tema.

Umberto Eco diceva che “tradurre significa dire quasi lo stesso”. Dove lo troviamo, questo “quasi”?

Eco non specifica di che cosa si tratta. Penso che la lingua possa essere affrontata e che il “quasi” si trovi nelle differenze culturali. Eco afferma che la traduzione sia una negoziazione costante. Proprio questo è il motivo per cui vengono create serie di traduzioni, perché diversi traduttori negoziano in modo diverso. È affascinante. Non posso rispondere inequivocabilmente alla domanda se si dovrebbe o meno rimanere sempre il più fedeli possibile all’originale, ma non ci si può discostare troppo dall’autore. Barańczak menziona il sottolineare quello che è più importante nel testo. Il traduttore non può tenere tutto, ma deve cercare una linea dominante. Soprattutto, dovrebbe essere fedele alle proprie scelte.

Tadeusz Boy-Żeleński e Julian Tuwim consideravano le traduttrici poco istruite che non hanno nulla da fare e traducono solo grazie alla loro conoscenza della lingua. Le donne lottano ancora per una posizione di parità rispetto agli uomini nella professione di traduttrice?

La traduzione letteraria è sempre stata ed è fino ad oggi un campo femminile. La donna viene talvolta definita la traduttrice eterna, considerando questa espressione in due modi. Da un lato è una donna che realmente lavora come traduttrice e dall’altro è una traduttrice della lingua dei maschi. Nei suoi testi, la donna spiega il mondo descritto dagli uomini. Le traduttrici femministe, d’altra parte, chiedono di trovare la propria lingua femminile nella traduzione. Guardando il modo in cui una donna entra nei mondi letterari, e in Europa questo accadeva nel 19° secolo, vediamo emancipate e suffragette che spesso sono anche giornalisti, che lottano per il diritto al voto e all’istruzione. Definirei queste donne non tanto traduttrici quanto mediatrici transculturali. Mediatrici, perché non solo traducevano i testi, ma scrivevano anche commenti. Tra il 1870 e il 1930 ne troviamo molte di queste donne. Quando si impara a conoscere la loro storia, si può vedere quanto sia ingiusta l’opinione di Boy e Tuwim. Grazia Deledda fu Premio Nobel per la Letteratura nel 1927 come unica donna italiana e seconda donna al mondo. Era stata precedentemente tradotta in polacco solo da donne. Poco dopo aver ricevuto il premio mondiale, Leopold Staff traduce immediatamente i suoi due romanzi. Quindi ci deve essere una consacrazione. Quando una donna entra nel mondo della cultura, un uomo comincia ad accettarla e tradurla.

Al giorno d’oggi, le donne non devono più lottare per la loro posizione nel mondo delle traduzioni. È un tipo di lavoro che ci consente di unire diversi ruoli sociali, ecco perché penso che molte donne scelgano questo mestiere anche per questo motivo. Un traduttore generalmente, indipendentemente dal sesso, è discriminato nel mercato editoriale perché è un mestiere mal pagato e molto spesso trascurato. Spesso il suo nome appare scritto in minuscolo oppure non appare affatto. Ad esempio, mi dà fastidio che sui manifesti teatrali che promuovono opere di autori stranieri non venga indicato il nome del traduttore, eppure, ad esempio, Shakespeare aveva molti traduttori.

Quindi vale la pena diventare un traduttore?
Chiaro che sì! La traduzione è una combinazione di imitazione ed emulazione. Imito il prototipo, ma anche per dimostrare che posso fare altrettanto bene, o forse anche meglio. Personalmente ritengo che, ad esempio, la traduzione di “Do trupa” di Morsztyn sia migliore rispetto all’originale di Marino. Il traduttore ha anche una funzione sociale molto importante. Questa professione è sempre esistita. All’inizio c’era una traduzione. Senza di essa non c’è cultura, non c’è comunicazione tra nazioni, tra persone. Penso che il ruolo del traduttore sia fondamentale nella capacità di parlare, anche in situazioni in conflitto.

Quale differenza Lei vede tra uno studente di filologia straniera di oggi e quello di 30 anni fa? I giovani adepti all’arte della traduzione possono essere traduttori più efficienti grazie alla tecnologia?

Vedo una differenza fondamentale: una minore autonomia. 30 anni fa uno studente si recava in biblioteca e cercava una bibliografia per la sua tesi, poi veniva a chiedere eventualmente consulenze e consigli. Oggi, lo studente pensa che tutto debba essere trovato su Internet, e la soluzione migliore sarà quella che il promotore fornirà una bibliografia completa sul suo argomento della tesi. Purtroppo quello che ho notato già a livello di laurea sono i tanti lavori di studenti che sono frutto di plagio, ovvero frammenti scaricati e incollati tra loro dai siti web. Ci sono lavori in cui ci sono persino dei link, quindi non si deve cercare da dove sono stati scaricati. Ci sono ovviamente gli studenti che sanno creare cose meravigliose. È qui che entra sulla scena la tecnologia. Quando traduco qualcosa, succede che mi aiuto con la base dei sinonimi o un sito in cui si possono cercare le rime. Non ho mai usato traduttori “pronti”, forse se scrivessi una lettera ufficiale, soprattutto in inglese, li userei e poi verificherei se il risultato è accettabile. Nel caso di traduzioni di belles lettres, non dovrebbero essere usati. Il traduttore pronto ci impone delle scelte stilistiche. Se devo tradurre solo una trama, posso usarlo (ad esempio, quando traduco arlecchino), ma con le belles lettres, che per me sono più di una semplice trama, non è possibile. Quando si traducono istruzioni o lettere ufficiali, un tale traduttore può essere utile perché velocizza il lavoro.

Ha mai desiderato diventare una scrittrice? Oggi sceglierebbe ancora la professione di traduttrice?

La mia famiglia voleva che studiassi medicina e, dopo il primo anno di filologia romanza, mi sono trasferita alla filologia italiana. Ho trovato qualcosa di nuovo e ho deciso di diventare italianista. Mi sono appassionata subito della letteratura. Quando ero bambina scrivevo poesie, ma se dovessi ricominciare la mia vita, prenderei esattamente la stessa strada. L’unica cosa che cambierei è che al liceo non cercherei di ricevere sempre i voti più alti nelle materie scientifiche, ma dedicherei più tempo a leggere. Non dico che queste materie non siano utili nella vita, perché a volte posso scioccare i miei studenti con conoscenze in vari campi, ma penso che guadagnerei di più se mi fossi dedicata subito alla lettura e non necessariamente all’apprendimento delle dinamiche di Newton. Ma allora il modello era diverso, si doveva avere una bella pagella e si doveva imparare tutto. Si deve avere una comprensione generale del mondo, ma senza esagerare.

Nel 2023 il salario minimo aumenterà due volte

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Nel 2023 sono previsti due aumenti del salario minimo: il primo dal 1° gennaio e il secondo a metà anno, legati all’elevata inflazione. Il 1° gennaio 2023, lo stipendio più basso in Polonia aumenterà da 3.010 PLN a 3.490 PLN lordi, il che significa un aumento di 346 PLN (da 2.363 PLN a 2.709 PLN netti). Il secondo aumento entrerà in vigore il 1° luglio 2023. Quindi il salario minimo più basso verrà aumentato a 3.600 PLN lordi, il che significa un aumento di 75 PLN al mese (da 2.709 PLN a 2.784 PLN netti). Gli stipendi degli insegnanti saranno aumentati del 7,8%, come in tutto il settore. Secondo “Fakt”, lo stipendio minimo di un insegnante principiante sarà di 3.691 PLN lordi (267 PLN in più), un insegnante nominato 3.878 PLN lordi (281 PLN in più) e un insegnante certificato 4.553 PLN lordi (329 PLN in più). Per i servizi in uniforme sono previsti gli stessi aumenti che per i rappresentanti del settore del bilancio e gli insegnanti. Gli agenti di polizia, le guardie di frontiera, i vigili del fuoco, gli ufficiali SOP (Servizio di Protezione dello Stato), gli ufficiali del servizio penitenziario e del servizio doganale e fiscale possono contare su uno stipendio mensile superiore in media di 640 PLN lordi. Pure gli stipendi nei ministeri pubblici e gli stipendi dei giudici aumenteranno del 7,8% e significa che lo stipendio base di un giudice del tribunale distrettuale (circa 10.000 PLN lordi) aumenterà di circa 795 PLN lordi, presso la Corte Suprema e il Tribunale Costituzionale, gli aumenti ammonteranno a quasi PLN 2.000 lordi. Dalla metà del prossimo anno aumenterà anche il salario minimo per infermieri, paramedici e medici. Secondo i calcoli della Federazione degli imprenditori polacchi, l’aumento ammonterà a oltre l’11%. Lo stipendio minimo più alto per un medico con una specializzazione aumenterà a 9.935 PLN, per un’infermiera con un master e una specializzazione a 8.838 PLN e per gli infermieri con una specializzazione con istruzione secondaria almeno a 6.988,82 PLN.

https://www.money.pl/gospodarka/zmiany-w-pensjach-w-2023-r-oto-kto-moze-liczyc-na-podwyzki-6849117389794112a.html?fbclid=IwAR1AORichgQYKjaNjZ59mlxRgbrYopD4DCnWSZtMFBEP1uf-IAusVOJXVhY

Satelliti francesi per l’esercito polacco

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl.

Mercoledì a Varsavia il ministro della Difesa polacco Mariusz Błaszczak ha incontrato il suo omologi francese Sébastien Lecornu. I ministri hanno confermato un contratto relativo alla consegna di due satelliti di monitoraggio per la Polonia. I satelliti miglioreranno la capacità dell’Esercito polacco nel campo del ricevimento dei dati di riconoscimento e per un allarme rapido per esempio in caso di disastri naturali. I ministri hanno parlato anche sulla cooperazione e sostegno per Ucraina. “Lo spazio diventa più militarizzato ed ha un’influenza sempre maggiori nelle azioni militari. Posso assicurare che daremo alle forze armate polacche un servizio e attrezzatura di qualità ottima”, ha assicurato il ministro francese.

https://www.pap.pl/aktualnosci/news,1514650,polska-i-francja-z-umowa-na-dostawe-dwoch-satelitow-obserwacyjnych.html?fbclid=IwAR0daTEOt6ugASZCMna70edch7ANkcEp4Wxp7UgWgKyMg-M_Wat1oLH9MlY

Raffineria di Danzica venduta a Saudi Aramco, per Tusk è uno scandalo

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L’azienda araba Saudi Aramco ha rilevato una parte delle azioni della raffineria a Danzica. L’ex primo ministro si è riferito a questo caso su Twitter scrivendo: “Il costo dell’investimento sarà recuperato dalla società araba in meno di un anno, la vendita è un regalo agli arabi fatto dal PiS ed è il maggiore scandalo nel 21° secolo in Polonia”. Tusk ha fatto notare, che durante il proprio governo la Polonia ha investito nella raffineria 10 miliardi di złoty e grazie a questo è diventata una delle raffinerie più moderne l mondo. “Io oggi dichiaro che questo affare è stato una sciocchezza o una grande corruzione, e potete essere sicuri che non starò a guardare”, ha dichiarato l’ex primo ministro. Al post ha risposto il vice primo ministro Jacek Sasin, raccontando che tutti hanno visto i documenti che dimostrano che Tusk voleva vendere l’azienda Lotos ai Russi.

https://forsal.pl/gospodarka/polityka/artykuly/8618572,tusk-sprzedaz-rafinerii-gdanskiej-to-najwieksza-afera-xxi-wieku-w-polsce.html?fbclid=IwAR0vqCgLGUn_PDBi3g7xjcLEEg6JJGxEsYy-MSTamiTs2RvAvLseq2NABJo

Enzo Favata Musica sconfinata

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fot. Fiorella Sanna

“La mia musica è contaminazione, sperimentazione, innovazione nella tradizione”. Così Enzo Favata, noto compositore polistrumentista sardo, definisce oltre trent’anni di produzione musicale. Una carriera iniziata da ragazzino, suonando per passione nei garage con le band di amici, ed arrivata ai vertici del jazz italiano ed europeo.

Cominciamo dall’inizio, come hai scoperto la tua vena artistica?

“Per caso. Quando ero ragazzo mia madre mi regalò una chitarra. Cominciai a strimpellare per gioco e imparai da autodidatta, all’epoca non c’era certo l’offerta di studi musicali che c’è oggi. Ad Alghero abitavo in un quartiere popolare e si usava andare in spiaggia al mattino e poi al pomeriggio ci chiudevamo in qualche garage ad ascoltar musica e suonare. Già allora capii che non mi accontentavo di suonare pezzi famosi ma volevo inventare. Tra i nostri amici ce n’era uno che faceva il cameriere a Londra ed ogni volta che rientrava dalla allora Swinging London – che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, stava però entrando in una nuova fase musicale – riempiva la valigia di vinili acquistati a pochi soldi a Portobello. All’epoca senza youtube e spotify si sceglievano i dischi guardando le copertine. E così ogni volta che aprivamo quella valigia, come fosse uno scrigno, uscivano le tendenze della capitale mondiale della musica. Erano i tempi del Rock Progressive psichedelico, dell’Heavy Metal, i miei gruppi preferiti erano Genesis, Deep Purple e soprattutto Pink Floyd. La svolta avvenne un giorno in cui chiesi a questo amico perché non ascoltavamo mai un certo disco che lasciava sempre da parte, un LP, come dicevamo allora, con in copertina un afroamericano che suonava la tromba su uno fondo blu. “No questo disco non è un granché”, disse l’amico. Io insistetti e lo mise su. La prima traccia era “My favourite things”… avevo quindici anni… John Coltrane mi cambiò la vita. “Questa è la musica che voglio fare!”, dissi e da allora la direzione della mia strada musicale era segnata.

In quel momento hai deciso che da grande volevi fare il musicista?

No, cioè adoravo suonare, ma ero giovane ed avevo anche altre passioni come la vela e il windsurf, in cui vincevo tante regate. Però non provenivo da una famiglia così benestante da potermi dedicarmi solo allo sport, né potevo accedere agli studi musicali jazzistici all’estero (allora c’era solo Berkley negli Stati Uniti). Nel frattempo sognavo di imparare a suonare il sassofono e ne comprai uno usato, un po’ malandato, con cui cominciai a spernacchiare sulla base dei dischi di Coltrane, ma non solo. L’anno seguente guadagnai qualche soldo andando a vendemmiare e potei comprarmi un sassofono nuovo. Così mi misi a studiare seriamente musica ed ero sempre più coinvolto in vari gruppi musicali. E poi giravo per i festival in Sardegna. La seconda svolta avvenne con l’arrivo del digitale e del mondo dei filtri elettronici a basso costo, dei registratori multi traccia economici, questo mi permise di iniziare a sperimentare, di mescolare diverse sonorità. E mentre da un lato ero riuscito a frequentare i corsi estivi della scuola di jazz di Siena, dall’altro studiavo da autodidatta etnomusicologia e giravo la Sardegna per conoscere e raccogliere suoni e musiche della tradizione.

Si può dire che la contaminazione, tra cui quella etnica, è diventato il tuo cosiddetto “marchio di fabbrica”?

“Sì. Forse perché abitando sin dalla nascita ad Alghero sono stato influenzato dalla città che è protesa sul mare, verso le culture diverse che arrivavano attraverso i giovani turisti appassionati di musica, ma dall’altro lato era una città che non guardava alle sue spalle, ovvero verso l’interno della Sardegna, dove invece avrei scoperto un bel mix tra differenti tradizioni musicali. Così è iniziato il mio viaggio di scoperta della mia terra e delle sue tradizioni musicali che, come quelle linguistiche, sono il frutto di diverse secolari stratificazioni culturali. Sono stati anni di grande ricerca ed entusiasmo, giravo con un registratore e prendevo appunti, conoscevo persone nuove, tutto era potenziale materiale da studiare ed utilizzare nelle mie composizioni. Questa esperienza ha avuto grande importanza nella musica che poi ho fatto nel tempo, un modello di lavoro che poi ho applicato verso altre culture come quelle del Sud America, dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente. Per quanto riguarda i miei lavori sulla Sardegna, a me è sempre piaciuto sposare i generi, il jazz con la musica etnica, il canto a “tenores”, le benas (strumento di origine primitiva ricavato dalla canna palustre), la launeddas (strumento musicale a fiato), le musiche argentine, il Coro a Cuncordu di Castelsardo, la “New Thing” americana degli anni Settanta, fino a mescolare musica classica con quella elettronica, e poi ancora ho collaborato con un grande virtuoso del bandoneon come Dino Saluzzi. In questo avventuroso percorso artistico il disco boa, ovvero quello che ha rappresentato un punto preciso della mia carriera è “Voyage en Sardegne” che rappresenta una sintesi degli strumenti e delle sonorità che ho sperimentato tra cui incroci coraggiosi tra jazz e musica etnica.

In questo approccio di contaminazioni nei tuoi concerti qual è il confine tra rispetto di una partitura e l’improvvisazione?

Il grado di improvvisazione dipende dal gruppo con cui mi esibisco. È chiaro che quando suono con i 40 musicisti della Metropole Orkestra della radio nazionale olandese l’improvvisazione si limita ad alcuni momenti di progressione di accordi. Mentre se suono con ensemble più ridotte allora c’è più spazio per l’improvvisazione. Seguiamo un canovaccio al cui interno divaghiamo spesso, ad esempio nell’introduzione o negli assoli. La simbiosi massima e quindi la maggior possibilità di improvvisare la raggiungo suonando con il gruppo The Crossing che è quello che mi accompagnerà nei due concerti in Polonia in ottobre.

Ci presenti i The Crossing?

È la band che cercavo da tempo, quella con cui ho sempre sognato di lavorare. È un laboratorio di idee in continuo divenire. A farne parte sono il pianista e compositore Simone Graziano, che si esibisce in una veste originale di bass synth keyboard, pianoforte Rhodes (quello famoso degli anni 70) tastiere e live elettronics. Al

fot. Rosi Giua

vibrafono e marimba midi c’è Pasquale Mirra, considerato uno dei maestri di questo strumento. Completa la band Marco Frattini alla batteria e samplers drum. A livello internazionale ormai mi definiscono “il Maverick (ovvero il battitore libero) del jazz Italiano”, The Crossing è un mix musicale fresco, con vibrazioni ed elettronica, sintetizzatori di basso elettrico e live electronics e batteria che creano atmosfere stratificate e poliritmiche, ma meravigliosamente leggere ed elastiche. Per interpretare nuove suggestioni e nuovi colori sonori ho riunito gli autentici fuoriclasse di The Crossing. Dopo un tour nel 2019 con loro la stampa giapponese scrisse: “una musica visionaria dal gusto selvaggio mediterraneo, rock cosmico, musica elettronica che si fonde con i ritmi ipnotici dell’Etiopia e le atmosfere balinesi, mescolati con la musica jazz con un uso sapiente dell’elettronica e dell’improvvisazione. Una potenza sonora poetica ed unica, il jazz italiano ci riserva sempre delle grandi sorprese, ma questa band è davvero brillante”.

fot. Giulio Capobianco

Ed ora i concerti in Polonia.
Il mio sarà un ritorno in Polonia, dove anni fa, con un progetto diversissimo: Voyage en Sardaigne per orchestra d’archi, coro a tenores e quintetto jazz, ho partecipato alla famosa Settimana Mozartiana a Gdansk. Poi, per quanto riguarda il mio legame con i musicisti polacchi, voglio ricordare che al Festival Jazz Musica sulle Bocche, di cui sono direttore, abbiamo ospitato due grandi musicisti polacchi: lo scomparso Tomasz Stanko e il trio del pianista jazz Marcin Wasilewski.

I vostri concerti saranno un’occasione anche per mostrare che la musica italiana non è confinata tra opera, cantautori e disco.

Bè la cosa non può che farmi piacere, in questo senso credo che sia importante che i mezzi di comunicazione non si limitino a parlare solo degli aspetti più stereotipati dell’italianità nella musica. Per esempio abbiamo una grande tradizione di jazz, con molti musicisti e tanti Festival, e in Sardegna siamo in tanti a sperimentare un jazz non convenzionale in cui emerge una sorta di codice genetico musicale sardo.

La cosa che mi fa più piacere è quella di venire a suonare in una nazione dove il Jazz ed i jazzisti stanno dando molto alla scena mondiale, spero che il mio “Maverick“ – The Crossing potrà soddisfare molto gli appassionati, noi ce la metteremo tutta.

Enzo Favata and The Crossing si esibiranno a Cracovia il 26 ottobre (19.30), in un appuntamento organizzato dall’associazione Shardana (Facebook: @ShardanaPL) e dall’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia in collaborazione con l’Akademia Muzyczna Krzystof Penderecki e la Szkola Muzyczna Bronislaw Rutkowski, nella cui sede si svolgerà il concerto con ingresso gratuito; e poi il 28 ottobre a Varsavia in occasione del famoso Jazz Jamboree Festival al club Stodola (alle 19.00) in una serata organizzata dall’associazione Shardana e dall’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia.