Panettone

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L’antenato del panettone arriva dritto dal Rinascimento. Per la precisione dal ferrarese Cristoforo Messisbugo che nel 1564 nel suo Libro Novo mette nero su bianco la ricetta dei «Pani de latte e zuccaro».

Si devono usare farina, burro, zucchero, uova, latte e acqua di rose; il pane «lo lascerai ben levare», lo cuocerai con grande ordine, «questo pane è più bello a farlo tondo» oppure anche «più grande o più picciolo, come tu vorrai». Ritroviamo le componenti di base del panettone e, soprattutto, la prescrizione che dev’essere molto lievitato («lo lascerai ben levare»), alla quale si aggiunge l’indicazione della forma: tonda. Come si vede, si tratta sì di un panettoncino un po’ smilzo e bassino, senza uvette e canditi, ma gli elementi per proseguire ci sono tutti.

Dovranno passare alcuni secoli prima che il panettone assuma la forma e la sostanza con il quale lo conosciamo noi oggi. Naturalmente sono solo simpatiche leggende tutte le storielle sullo sguattero del duca Sforza di nome Toni che salva il cuoco di corte preparando un dolce con gli avanzi al posto di quello che si era bruciato. Divertenti, ma non c’è niente di vero. La realtà è molto più banale: panettone significa pane grande e rientra nella categoria dei pani dolci natalizi. Siamo in un’epoca, il tardo medioevo, nella quale lo zucchero è un bene preziosissimo e quindi per sottolineare le feste si dolcifica il normale pane che viene infornato (più o meno) ogni giorno. In tutta Italia si confezionano pani festivi – non necessariamente natalizi – con vari nomi: panün valtellinese, pandolce genovese, panspeziale bolognese, panforte senese, panpepato umbro-toscano, pangiallo laziale. L’impasto è dolcificato con lo zucchero e impreziosito con le mandorle (a Bologna), con i pinoli (Genova), e anche con mostarda, uvetta o fichi secchi. Sarà soltanto il pane natalizio di Milano a uscire dai confini locali e a diventare il dolce principe del Natale italiano.

Il panettone come lo conosciamo oggi è figlio dell’industrializzazione: Milano nell’Ottocento si afferma come principale centro manifatturiero della penisola e impone anche il suo dolce natalizio. Già nella seconda metà del secolo i pasticceri milanesi spediscono panettoni per ogni dove. I nomi di Cova, Biffi, Tre Marie, Baj, Marchesi diventano conosciuti ovunque. Ci si comincia a regalare panettoni, dolci costosi perché ricchi di ingredienti di pregio. Sia Gioacchino Rossini, sia Giuseppe Verdi in una lettera ringraziano l’editore musicale Ricordi per l’omaggio di un panettone. A fine Ottocento il dolce diventa addirittura arma di litigio tra il compositore Giacomo Puccini e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini; il primo manda un panettone per Natale al secondo, uomo dal carattere notoriamente ruvido. Dopodiché i due bisticciano, e Puccini invia un piccato telegramma a Toscanini: «Panettone mandato per errore», scrive. Al che Toscanini gli risponde per le rime: «Panettone mangiato per errore».

Panettoni che, attenzione, sono bassi. Per trovare i dolci lievitatissimi che usiamo oggi bisogna andare a Verona dove Domenico Melegatti ha l’idea di riempire di burro e di uova il dolce natalizio tradizionale veronese, il nadalin, in modo che si levi ad altezze al tempo sconosciute. Nel 1894 lo brevetta per dirimere le controversie con altri pasticceri che si attribuivano la paternità del dolce. Il nome deriva dalla tradizione rinascimentale di ricoprire i pani con foglia d’oro per ostentare la propria ricchezza, come in occasione del banchetto organizzato a Bologna il 29 gennaio 1487 da Giovanni II Bentivoglio per celebrare il matrimonio del figlio Annibale con Lucrezia d’Este. Melegatti era un uomo piuttosto intraprendente e sfida il panettone aprendo un negozio nel cuore del territorio avversario, a Milano, proprio in quello stesso corso Vittorio Emanuele dove avevano casa le Tre Marie, azienda che produceva panettoni. Avvia la vendita per corrispondenza e spedisce
pandori in tutto il mondo.

Per arrivare ai panettoni alti, alle tre lievitazioni canoniche, bisogna aspettare Angelo Motta, che dopo aver aperto la propria bottega, nel 1919, applica al panettone lo stesso trattamento che Melegatti aveva riservato al pandoro. Osserva lo scrittore Orio Vergani: «Aumenta considerevolmente le dosi di burro, uova, zucchero e canditi, modifica e accresce i tempi di lievitazione e di cottura e, poiché la pasta, così trattata, diventa più molle, per sostenerla ricorre alla geniale semplicissima soluzione della fasciatura di carta a corona: nasce così il panettone Motta».

Ecco un altro parallelo tra panettone e pandoro: entrambi, per lievitare così tanto, richiedono una pasta molto morbida che ha bisogno di un sostegno per rimanere della forma voluta, Melegatti si è inventato lo stampo a forma di stella, Motta la corona di carta. Gli stampi metallici sono più costosi, ma si riutilizzano, la carta, invece, è economica, ma a perdere. Altro parallelismo è la rincorsa tra concorrenti rivali: a Verona tra Melegatti e Bauli, a Milano tra Motta e Alemagna.

Angelo Motta è il classico industriale venuto su dal niente e, al contrario del buonismo sparso a piene mani dalla sua pubblicità, è un iracondo e si ricordano i carrelli di panettoni rovesciati in malo modo, perché non conformi alla qualità da lui pretesa. L’industriale Mobbi, il cattivone che chiama la polizia per far sloggiare i baraccati, in uno dei più celebri film del neorealismo italiano, Miracolo a Milano, di Vittorio De Sica (1951), ricalca proprio la sua figura, tra l’altro identificabile anche dall’assonanza del cognome. E sembra proprio un paradosso che il dolce simbolo della bontà natalizia fosse prodotto da un industriale invece ricordato per gli scoppi d’ira.