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Al Castello Reale di Varsavia la mostra “Le vedute italiane di van Wittel”

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La mostra delle opere di Gaspare van Wittel, uno dei precursori del vedutismo, è stata inaugurata l’altro ieri (21 marzo 2024) al Castello Reale dove resterà visitabile fino al 24 giugno. Anche se van Wittel nacque nei Paesi Bassi, l’Italia divenne la sua patria d’elezione. Vi trascorse la maggior parte della sua vita, dipingendo le città italiane in modo estremamente personale. I visitatori della mostra potranno ammirare 14 bellissime vedute di Roma, Napoli e Firenze, provenienti dalle collezioni private e quindi molto spesso non accessibili al pubblico. La mostra è accompagnata da un programma educativo che comprende conferenze su temi selezionati dall’opera di Gaspare van Wittel, un catalogo e materiale audio registrato dalla curatrice della mostra Alicja Jakubowska. “L’esposizione della collezione di dipinti di van Wittel preannuncia la creazione di una sala dedicata alla moda del Grand Tour: un lungo viaggio attraverso il continente, ma con soggiorno principale nelle città italiane. Una sala dedicata a questo tipo di turismo sarà situata vicino alla mostra permanente delle vedute di Canaletto”, afferma il prof. Wojciech Fałkowski, direttore del Castello Reale di Varsavia.

Patate o batate? Nel dubbio, entrambe!

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Penserete che si tratti di un errore di ortografia, ma non è così: oggi parliamo proprio di patate e di batate, quest’ultime forse più conosciute con il nome di patate dolci o patate americane. 

Nonostante il nome molto simile, patate e batate in comune hanno veramente poco. Entrambe sono ortaggi a radice tuberosa, ed entrambe sono originarie dell’America Centrale e Meridionale, anche se oggi sono coltivate in tutto il mondo. Appartengono però a due famiglie diverse: la patata (Solanum tuberosum) è una Solanacea, gruppo che comprende anche melanzane, peperoni e pomodori, mentre la batata (Ipomea batatas) appartiene alla famiglia delle Convolvulaceae, piante utilizzate perlopiù a scopo ornamentale e conosciute con il nome generico di Bella di giorno o Morning glory.

L’appartenenza a famiglie diverse, oltre ad essere una curiosità botanica, assume una certa importanza dal punto di vista alimentare se si considera che le patate contengono la solanina, una sostanza tossica caratteristica delle Solanacee. La solanina è presente in ogni parte della pianta, comprese foglie, frutti e radici, in quanto ha funzione di difesa contro i parassiti. La sua struttura rimane stabile anche ad alte temperature: nessun metodo di cottura, quindi, è in grado di diminuire il contenuto di questa sostanza che, se ingerita in quantità elevate, può provocare alterazioni nervose e sintomi come nausea, mal di stomaco, vomito e febbre. Nella patata normalmente la solanina è presente a basse dosi. Il suo contenuto aumenta nelle patate verdi (colorazione dovuta all’esposizione alla luce o al freddo) e nelle altre parti della pianta: per questo motivo bisognerebbe conservare le patate al riparo dalla luce, e non consumarle nel caso presentino numerosi germogli. Non essendo una Solanacea, la batata non contiene la solanina, e quindi possono essere consumate anche altre parti della pianta, come le foglie.

Sia le patate sia le batate si presentano con una buccia marrone che può essere ruvida o liscia, e la polpa di vari colori tra cui giallo, rosso e viola, a seconda della varietà.

Ciò che le distingue maggiormente è il gusto: delicato quello delle patate, molto dolce quello delle batate.

I valori nutrizionali sono pressoché identici in termini di calorie, proteine e carboidrati contenuti. Le batate forniscono un contenuto maggiore di vitamina C e di vitamina A, oltre ad essere ricche di antiossidanti. La differenza importante è data dal loro indice glicemico (IG), il valore che esprime la capacità dei carboidrati contenuti in un alimento di innalzare la glicemia. Gli alimenti a basso IG vengono assorbiti e metabolizzati più lentamente, con conseguente aumento del senso di sazietà e benefici sul controllo del peso.

Nonostante il sapore dolce, la batata ha un indice glicemico moderato (da 44 a 94, contro 110 della patata) poiché contiene prevalentemente carboidrati complessi. Tuttavia bisogna tenere presente che l’IG è fortemente condizionato dal metodo di cottura: l’alta temperatura innesca un processo che rende gli zuccheri più semplici, e quindi più facilmente assorbibili. Per questo motivo, ad esempio, le batate al forno hanno un IG molto più alto di quelle bollite, e lo stesso vale per le patate.

Ovviamente la domanda più interessante è: come gustare al meglio patate e batate? Le patate hanno senza dubbio raggiunto un grado di diffusione tale per cui le ricette sono già molto conosciute e pressoché infinite: fritte, arrosto, lessate e condite in insalata, oppure come ingrediente base per polpette, zuppe e soufflé. Ce n’è davvero per tutti i gusti.

Le batate sono un po’ meno conosciute, ma altrettanto versatili. Come le patate, possono essere cotte intere oppure tagliate a fette sottili o a cubetti, per poi procedere alla preparazione che si preferisce: bollite, in padella, fritte oppure al forno. Possono essere consumate anche crude (il loro sapore in tal caso ricorda molto quello delle carote) e con o senza la buccia (sì, è commestibile anche cruda!).

Si prestano molto alle ricette di ispirazione esotica, come il curry o il Batata Harra di origine libanese, ma possono essere utilizzate anche per la preparazione di dolci. In generale, sono un buon sostituto della zucca in diverse preparazioni tra cui risotti, sughi, ripieni e torte salate.

Nel dubbio, perché non preparare patate e batate insieme, nella stessa ricetta? La mia preferita è anche la più semplice: cotte al forno, condite con olio d’oliva, sale grosso e un’abbondante manciata di salvia e rosmarino fresco. Basterà tenere presente un piccolo accorgimento: la batata è molto più tenera della patata, di conseguenza la cottura avviene in tempi più brevi. Iniziate la cottura con le sole patate, e dopo circa 20 minuti aggiungete anche le batate. Volendo rendere la ricetta più croccante ed originale, aggiungete qualche cucchiaio di farina di mais fioretto o fumetto di mais (le farine a grana più fine), e mescolate bene prima di continuare la cottura. Il risultato sarà una pirofila piena di profumo e di colore.

Borsalino – Il cappellaio geniale

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L’unica cosa che non dovrebbe mancare nel guardaroba di ogni uomo è un cappello.

Ci sono i cappelli per la vita di ogni giorno, alcuni per occasioni speciali, altri che si adattano a stati d’animo diversi.

Il cappello è certamente un segno di riconoscimento, ma è soprattutto un’ancora di salvataggio:

salva l’uomo dall’imbarbarimento dei costumi, dalla perdita progressiva dell’eleganza.

(Humphrey Bogart, Times Magazine 1948)

 

Alessandria è una città piemontese apparentemente con poco carattere. Fatta di edifici moderni e situata in pianura, non corrisponde all’immagine del Bel Paese che di solito si ha all’estero. D’estate c’è un caldo insopportabile. D’inverno, invece, il freddo umido e la nebbia avvolgono ogni cosa. La città, però, sorprende per i suoi eleganti negozi e per le accoglienti caffetterie in stile belle époque, nobile eredità del vecchio Piemonte dei Savoia. E qui centosessantasei anni fa fu fondata la grande azienda di Giuseppe Borsalino, che produceva i famosi cappelli, diventando con il tempo fornitrice della Real Casa torinese, delle star del cinema, di papi e della mondanità internazionale.

Fin dall’inizio, Giuseppe Borsalino voleva creare prodotti che potessero essere venduti in tutto il mondo. A soli sedici anni partì per la Francia dove per sei anni fece l’apprendista in diverse botteghe. Tornò ad Alessandria nel 1857. Insieme al fratello Lazzaro comprò a Manchester i macchinari più moderni dell’epoca e aprì una piccola bottega. Il senso degli affari, lo stile e il fiuto per le nuove mode contribuirono ai loro primi successi. I due fratelli disegnarono nuovi copricapi, combinando l’estetica rigida dei cilindri e delle bombette con le linee e i materiali morbidi dei cappelli usati dalla classe operaia. L’idea fu un successo. Nel 1888 la fabbrica produceva 550 pezzi al giorno, che nei primi del ‘900 arrivarono a 5.500. L’aumento della capacità produttiva fu possibile grazie a un nuovo stabilimento inaugurato in Corso Cento Cannoni, proprio nel centro di Alessandria. Anche se oggi il fatto può far sorridere, l’azienda Borsalino ebbe, per prima, l’idea di proporre una collezione esclusivamente femminile, che si rivelò una brillante strategia di marketing. Tuttavia, in un’epoca in cui nessuno usciva di casa senza un cappello, Giuseppe Borsalino non lo portava, perché riteneva che gli impedisse di pensare.

Il classico Borsalino è una variante di un copricapo chiamato Lobbia, la cui origine si lega alla disgrazia di un deputato. Il 15 giugno 1869, Cristiano Lobbia, che si batteva contro la corruzione dei politici, fu aggredito nel centro di Firenze con una bastonata in testa. Lobbia divenne un eroe nazionale. Pochi giorni dopo, un modista fiorentino, dopo aver letto che la bastonata dell’aggressore aveva causato un solco sulla bombetta del deputato, ideò un modello simile e lo espose in vetrina con un biglietto che ne presentava il nome “cappello alla Lobbia”. La novità trovò subito imitatori in tutta Italia. Col tempo Giuseppe Borsalino perfezionò il Lobbia, aggiungendo due falde laterali nella corona, che ne facilitavano la cortese alzata per salutare le signore a passeggio. Inoltre la qualità del materiale impiegato per la produzione garantiva il comfort del nuovo modello Borsalino. Si trattava di un feltro di pelo di coniglio rasato appartenente ad una razza australiana appositamente importata e tuttora allevata in Piemonte. Così i cappelli alessandrini, ancora oggi, vengono creati con lo stesso procedimento da oltre 160 anni.

In una prima fase, il pelo di coniglio, viene pulito e adagiato su appositi coni d’acciaio, dove subisce un processo di infeltrimento grazie all’azione di calore e acqua, formando lentamente un semilavorato quattro volte più grande della misura definitiva. L’intero processo di produzione dura sette settimane. Tutte le fasi, esattamente cinquantadue per ogni pezzo, sono eseguite con attrezzature manuali. Il mestiere si tramanda, spesso, di generazione in generazione e richiede grande impegno e manualità. È grazie a questo che è nato un marchio leggendario e rispettato a livello internazionale, che però ha visto alternarsi alti e bassi. La Seconda Guerra Mondiale provocò una forte riduzione della domanda, la maggior parte degli uomini fu arruolata e la fine del conflitto portò un cambiamento nella moda e nei costumi. Fu allora che Borsalino si rivolse al mondo del cinema per promuovere i propri prodotti. Il Borsalino è stato senza dubbio reso famoso da Humphrey Bogart nel film Casablanca del 1942. È curioso scoprire che i cappelli da cowboy nei film western non sarebbero figli del Far West ma un’invenzione cinematografica, creata per la fabbrica dei sogni dall’azienda piemontese. Col passare degli anni l’ormai famoso copricapo viene indossato anche da Alain Delon, J.P. Belmondo, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Woody Allen, Toni Servillo nel film premio Oscar La grande bellezza, e da John Malkovich nella serie televisiva The New Pope. Nel frattempo, l’azienda ottiene altre commissioni esclusive, tra cui quella per le bombette azzurre delle hostess della Pan Am Airlines, e un ordine di duemila cilindri neri per lo Scià Reza Pahlavi, per commemorare il 2500° anniversario dell’Impero Persiano. Significative furono anche le collaborazioni con la Settimana della Moda di Milano e i progetti realizzati con creativi come Gianni Versace e Krizia. Nel corso del tempo, tuttavia, la mancanza di eredi nella famiglia Borsalino ha fatto sì che negli anni Ottanta l’azienda cadesse nelle mani di uomini d’affari poco onesti e finisse per trovarsi in gravi difficoltà finanziarie, portando la secolare azienda al collasso. Da qualche anno la società ha un nuovo proprietario, l’olandese Haeres Equita, e sta cercando di reinventarsi facendo leva sui gusti dei millennials di oggi, il target principale dell’azienda.

Il mutamento però non lo si percepisce nello storico negozio Borsalino nel centro di Alessandria. L’atmosfera qui è un po’ sonnolenta, anche se la lunga storia di questo posto rende la visita emozionante.  In un venerdì pomeriggio autunnale, i clienti sono pochi o del tutto assenti. Più che un negozio sembra un piccolo museo. Forse gli acquisti vengono fatti nell’outlet aziendale od on-line? Un commesso, educato e disponibile mi invita a dare un’occhiata all’interno e addirittura a provare quello che desideravo! Tuttavia, mi sembra sciocco ammirarsi nello specchio e poi non comprare nulla, quindi dopo un giretto mi dirigo verso l’uscita. Ma ad attirare la mia attenzione sono due specchi con antiche scritte NUTRIA. Mi viene da ridere perché mi fanno venire in mente le poco stilose e molto pelose pellicce usate in Polonia nell’epoca comunista. Il commesso mi racconta che in Italia un tempo la pelliccia di nutria aveva lo stesso valore di quella di castoro e che il suo pelo veniva utilizzato insieme a quello di coniglio per produrre feltri pregiati. Ecco, tutto dipende dal contesto. Uscendo dal negozio, noto anche due scaffalature in legno con piccole ruote, questi graziosi mobiletti in passato avevano una funzione piuttosto banale, ovvero erano i carrelli per i trasporti da un reparto all’altro. Si tratta di veri e propri pezzi d’antiquariato, recuperati di recente dall’oblio del magazzino della fabbrica.

L’attuale stabilimento Borsalino è un semplice edificio circondato da una recinzione, situato quasi in un campo aperto nella frazione di Spinetta Marengo, a sette chilometri da Alessandria. La grande e squadrata insegna BORSALINO sulla copertura della fabbrica non si adatta al vecchio stile dell’elegante marchio. Immagino che volesse essere moderno, ma il risultato è stato modesto. Speravo di poter fare un giro dell’edificio e dare un’occhiata al processo di produzione, l’azienda a volte permette le visite, purtroppo questa volta non è stato possibile. Per fortuna esiste un nuovo museo del brand, inaugurato la scorsa primavera nel vecchio edificio della società nel centro della città. Del complesso produttivo – le cui dimensioni erano pari a quelle della Manufaktura di Łódź in Polonia – dopo i bombardamenti dell’ultima Guerra è rimasta solo una parte con l’ingresso principale del palazzo. Fino al 1987 aveva resistito anche la ciminiera dello stabilimento con l’insegna originale Borsalino, che le autorità decisero di demolire. Tommaso, lo studente di storia dell’arte che mi ha fatto da guida nel museo, racconta di essere un nostalgico per le antiche strutture che sono andate perdute.

Oltre duemila copricapi di tutte le fogge sono esposti nelle originali vetrine disegnate da Arnaldo Gardella, autore del progetto di tutta la fabbrica Borsalino dell’anteguerra. Le teche servivano un tempo per raccogliere tutti i campioni di produzione. Oggi contengono diversi modelli storici appartenuti, fra gli altri, al compositore Giacomo Puccini, che aveva un debole per la moda, ai papi Giovanni XXIII e Benedetto XVI, a Federico Fellini, John Wayne, Harrison Ford e Robert Redford. Ci sono anche: il Trilby preferito da Frank Sinatra e i famosi Fedora e Mambo, insieme ad altri berretti, toques, cilindri e tube, le cloche e i Panama. Questi ultimi sono nati in Ecuador, dove vengono ancora intrecciati usando le fibre di una palma locale, e sono patrimonio culturale di questa terra. Devono però il loro nome allo stato di Panama dove venivano venduti in particolare ai cercatori della grande corsa all’oro in viaggio verso la California. Ancora oggi i Panama prelavorati arrivano ad Alessandria e vengono poi rifiniti e decorati. A volte però, occorrerebbe una pepita d’oro per poterne acquistare uno, dato che alcuni modelli con l’intreccio più fine, raggiungono prezzi molto alti. La storia dei copricapi è il risultato dello sviluppo della civiltà, degli eventi storici, di nuove esigenze e stili di vita e della necessità di viaggiare. Un esempio può essere il fatto che la diffusione dell’automobile ha richiesto l’introduzione di cappelli più bassi che potessero essere indossati anche alla guida.

La visita al Museo Borsalino di Alessandria è come un viaggio nel tempo. Una volta terminato, vado a rifocillarmi in uno dei ristoranti locali. La cucina piemontese è ricca di tradizione. Il Barbera si sposa bene con un piatto di agnolotti al sugo di brasato. Più tardi passerò dall’antica pasticceria Gallina per qualche bacio di Alessandria, croccante pasticcino alle nocciole che gusterò sognando un cappello Borsalino tutto per me.

La collezione del Castello Reale di Varsavia si arricchisce del “Soldato in piedi con armatura” di Raffaello

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Il Castello Reale di Varsavia ha presentato ieri durante una conferenza stampa il suo nuovo acquisto ovvero il disegno di Raffaello “Soldato in piedi con armatura” (circa 1506-1509). Si tratta del primo disegno dell’autore in Polonia, dopo la scomparsa del “Ritratto di un giovane uomo” durante la seconda guerra mondiale. “L’acquisto del Castello Reale non è solo un arricchimento della collezione di un’opera unica ma anche l’ampliamento delle risorse artistiche dell’intero paese”, ha affermato il direttore Wojciech Fałkowski. Il disegno è realizzato a penna e inchiostro marrone su carta rigata e rappresenta il profilo di un soldato con la mano destra tesa in cui impugna una spada. Attenzione merita la linea libera, spontanea e precisa dell’artista. Lo schizzo dimostra le eccellenti capacità di disegno del maestro rinascimentale, che già in vita fu acclamato un genio. Il disegno di Raffaello sarà esposto per una settimana fino al 17 marzo alla Galeria Arcydzieł al Castello Reale di Varsavia. Lo potremo rivedere in autunno insieme alle altre opere del maestro che comporranno la mostra “Raffaello. La bellezza del rinascimento”. Sarà la prima mostra dedicata all’artista in Polonia dove potremo ammirare le più preziose opere provenienti dalle gallerie italiane più importanti come Galleria degli Uffizi, Pinacoteca Palatina, Musei Vaticani, Palazzo Barberini e altre.

Tavola rotonda: Donne italiane in Polonia tra imprenditorialità e managerialità, Ambasciata d’Italia a Varsavia, 8 marzo 2024

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In occasione della Giornata Internazionale della Donna si è svolta presso l’Ambasciata a Varsavia la Tavola Rotonda “Donne italiane in Polonia tra imprenditorialità e managerialità”. L’evento – aperto dall’Ambasciatore Luca Franchetti Pardo – ha visto la partecipazione di sette donne “leader” provenienti da diversi ambiti lavorativi, che hanno confrontato le rispettive esperienze.

La discussione, a porte chiuse, ha esaminato in particolare le tendenze e le opportunità attuali in Polonia per le donne italiane nell’imprenditorialità; le principali sfide e ostacoli che deve affrontare una donna imprenditrice/manager; le competenze specifiche richieste dal mercato del lavoro polacco rispetto a quelle normalmente necessarie in Italia; l’eventuale disponibilità di risorse e incentivi per supportare le donne nel loro percorso lavorativo. Sono state anche esaminate le differenze nel modo di conciliare le responsabilità tra lavoro e vita privata in Polonia rispetto all’Italia.

Gli esiti della Tavola Rotonda verranno sintetizzati in un documento che sarà illustrato ad una platea più ampia in una successiva occasione pubblica, in programma per la tarda primavera prossima, anche in un’ottica di networking al femminile – esigenza fortemente evidenziata nell’evento odierno che ha permesso a diverse partecipanti di incontrarsi per la prima volta.

La Tavola Rotonda è stata organizzata dall’Ambasciata italiana a Varsavia in collaborazione con Com.It.Es. Polonia e Confindustria Polonia.

Banca Intesa Sanpaolo, avvicendamento alla direzione della filiale di Varsavia

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Serata conviviale ieri in Ambasciata d’Italia per un saluto al direttore della filiale Banca Intesa Sanpaolo, Novella Burioli, che dopo 5 anni lascia la sede di Varsavia per Singapore da dove sarà responsabile di un’ampia area geografica. “Gli anni passati a Varsavia sono stati intensi e proficui, ho avuto modo di apprezzare una comunità italiana vivace sia dal punto di vista imprenditoriale che culturale che noi come banca sistemica abbiamo cercato di supportare per creare sempre più ponti tra Italia e Polonia”, ha detto Burioli.

“Da parte della direttrice Burioli e di Banca Intesa Sanpaolo ho avuto sempre una disponibilità proattiva a supportare le iniziative italiane, disponibilità di cui la comunità italiana ha bisogno per svilupparsi in maniera sempre più efficace. Colgo l’occasione per accogliere con un in bocca al lupo il dottor Stefano Gavazzi che sostituisce la dottoressa Burioli”, ha dichiarato l’Ambasciatore d’Italia Luca Franchetti Pardo al fianco della moglie Marta che ieri hanno accolto con una deliziosa cena una piccola rappresentanza della comunità finanziaria e culturale italiana in Polonia.

Basilico, origano, prezzemolo

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La cucina greca e italiana d’oggi si paragona difficilmente alla cucina degli antichi greci e romani. La ragione è semplice: molti ingredienti che oggi sono una parte importantissima della cucina europea come i pomodori, le patate, i peperoni o anche la zucca, furono portate in Europa solo coi viaggi di Colombo. I romani non conoscevano queste piante. Ci sono però comunque tanti ingredienti che si usavano all’epoca e che si usano ancora oggi. Alcuni di questi ingredienti hanno lo stesso nome d’origine greca o latina; un ottimo esempio sono proprio i nomi di alcune piante usate come spezie. 

Basilico

Se la pronuncia del nome basilico fa venire in mente la parola basilica, c’è una buona ragione per questo, perché entrambe le parole provengono dalla parola βασιλεύς (basileús) che significa re. In italiano basilico è arrivato attraverso il latino dalla parola greca βασιλικός (basilikós) che è un aggettivo col significato (come si può già dedurre) di “reale”. Il basilico, una spezia particolarmente apprezzata e usata diffusamente, è quindi una pianta così importante che venne chiamata una pianta regia, degna dei monarchi. In polacco il nome è un po’ diverso, bazylia, che somiglia molto più all’inglese basil, e che esiste in questa forma perché in polacco non è arrivato direttamente dal latino, ma attraverso il tedesco Basilie.

Origano 

Anche origano è una parola d’origine greca. È arrivata dal latino origanum  che a sua volta l’ha presa dal greco ὀρίγανον (oríganon) che è una parola composta da due elementi: ὄρος (óros) e γάνος (gános). La prima parola significa montagna mentre l’altra vuol dire chiarezza, gioia o freschezza. Il nome della pianta si potrebbe tradurre quindi come la freschezza delle montagne. È un nome che riguarda le proprietà dell’erba e ovviamente il terreno dove tipicamente si trova. Anche se è una spiegazione gradevole, bisogna ricordare che non è accettata da tutti e alcuni studiosi propongono anche l’origine pregreca la cui etimologia è comunque sconosciuta.

Prezzemolo

Una spezia importantissima, usata ampiamente in tanti piatti italiani: con le carni i pesci ma anche con le verdure. Ci sono anche nomi diversi di questa pianta: petrosello o petroselino, che sono più vicini al nome latino petroselinum che a sua volta è un prestito dal greco antico. Anche il nome polacco, pietruszka, aveva una forma alternativa che però non si usa più: piotruszka che sicuramente rimanda al nome maschile Piotr, come lo fa anche il petrosello, alludendo al nome Pietro. È un’associazione non casuale, perché entrambi i nomi, cioè il nome Pietro e il prezzemolo hanno la stessa origine. La parola greca da cui viene petroselinum è πετροσέλινον (petrosélinon) è un nome composto da πέτρος (pétros) e σέλινον (sélinon). La prima parola significa nient’altro che pietra e proprio essa è la base del nome biblico. Ma anche nel caso della seconda parola si può provare a indovinare che pianta sia. I nomi sia in polacco sia in italiano sono abbastanza simili: sedano, seler. A causa delle similitudini tra le due piante, il sedano e il prezzemolo, l’altro venne nominato “sedano che cresce fra le pietre”.

Mini tour tra cultura e sapori in Abruzzo e Molise

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La scorsa primavera ero in un periodo molto ricco di viaggi e impegni ed ero pure in procinto di partire per una nuova avventura di vita extra-europea. Nonostante questo è emersa la necessità di trovare il tempo per andare a scandagliare l’immensa ricchezza del nostro Bel Paese, in particolare sul piano culturale e gastronomico. Così, con la compagnia designata e ben già rodata di mia cugina Irene, abbiamo deciso di partire per una sostanziosa tre giorni tra Abruzzo e Molise. Inutile stare a sottolineare (eppure lo faccio ogni volta!) quanto ogni regione d’Italia sia intrisa di storia, tradizioni, natura, e di come si potrebbe spendervi (potendolo fare…) tempo in abbondanza senza il rischio di restare senza stimoli: questa è una delle poche certezze della vita! Il nostro itinerario vede come prima tappa L’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo, città suggestiva e vegliata dal maestoso (e innevato) Gran Sasso, ma nella quale le ferite della recente dolorosa storia sismica sono tuttora troppo lancinanti; e nonostante tanta arte, architettura e vita, quella “particolare” atmosfera è un qualcosa purtroppo di forzatamente inscindibile. A tavola non ci sono molti dubbi, con un pranzo dominato da arrosticini di pecora fatti a mano, ed anche alcuni molto saporiti di fegato, il tutto accompagnato da bruschettoni con funghi e salsiccia. Nel tardo pomeriggio ci muoviamo  scendendo lungo la costa dell’Adriatico, in direzione della deliziosa Termoli. Parliamo di una delle principali città del Molise, unico porto della regione e punto strategico da cui poter esplorare la zona. Da qui si possono raggiungere facilmente le isole Tremiti, oppure addentrandosi nell’entroterra, distante circa un’oretta, Campobasso. Ed è proprio il capoluogo molisano il focus del secondo giorno, non prima di aver trascorso una piacevole serata passeggiando tra le vie di Termoli e del suo pittoresco Borgo Antico. La cena? Dell’immancabile pizza seguita da sosta tattica in pasticceria. L’indomani si va alla volta di Campobasso come detto, lungo un tragitto caratterizzato da tanto verde. Giunti in città, dopo aver camminato tra i fascinosi vicoletti, si sale verso il Castello Monforte per ammirare dall’alto il panorama circostante, accompagnati costantemente da un cielo che per metà riluce d’azzurro e per l’altra minaccia acqua. La camminata merita anche il rischio di pioggia, tra le chiesette, le case e i pini sacri. Ridiscesi ora nella parte bassa della città, per pranzo si va nel tipo di locale che più amo, ossia le botteghe con gastronomia, dove restare ammaliati da numerosi salumi, formaggi, dolci tipici e quant’altro. E proprio questi elementi compongono il “semplice” (cosa c’è alla fine di meglio di un buon panino?) quanto squisito pasto, nel posto in questione il quale offre una vasta selezione di prodotti di tutto il Molise: e vuoi non riempirti poi lo zaino con un po’ di salsiccia, soppressata e caciocavallo da portare anche a casa? Nel tardo pomeriggio, dopo aver esplorato ulteriormente, si torna a Termoli, dove una splendida luce e un doveroso gelato accompagnano un’altra gradevole passeggiata, prima della cena. Il piatto forte in questo caso sono i cavatelli, realizzati a mano sotto i nostri occhi da una anziana signora, quasi ipnotica da osservare nel dar vita alla pasta fresca. Vini rossi tipici ed altre specialità del luogo vanno a completare il quadretto di una cena soddisfacente. Terzo ed ultimo giorno: si risale di buon mattino in Abruzzo, verso San Vito Chietino, punto di partenza per una passeggiata sulla Costa dei Trabocchi. Il meteo non è buono, meglio aspettare il probabile sereno del pomeriggio, ed allora non resisto alla curiosità di voler mettere piede nella vicina Lanciano: una città che mi ha sempre suggerito qualcosa, come diverse altre nel centro Italia. Ma come molte altre cose, spesso quelle che accadono per caso sono le migliori, e voglio dare valore assoluto a quel che ho qui vissuto, perché la giornata si sarebbe davvero potuta concludere in questa mattinata. Anticipo e sintetizzo con poche parole il pomeriggio e la serata, peraltro splendidi, tra l’abbondante pranzo di pesce (fritto, paccheri ai frutti di mare, seppie ripiene …) a San Vito e la lunga scenografica via della Costa dei Trabocchi, costruzioni in legno per la pesca che caratterizzano questo tratto di Adriatico, prima del rientro in Lombardia in nottata. Siamo a Lanciano dunque, e dopo aver camminato un po’ per la meravigliosa piccola città, entriamo in un posto (anche per evitare la pioggia) che ci incuriosisce: la “Bottega del Viaggiatore Errante”.  Ho viaggiato tanto nella mia vita ma… un posto come questo io non l’avevo veramente mai visto e vissuto. E più che di posto parlerei infatti di esperienza vera e propria, che è ciò che mi sono portato a casa alla fine. Qui abbiamo incontrato persone squisite, che ci hanno accolto come ci conoscessimo da sempre, offerto un caffè, un dolce, con cui abbiamo parlato di tante cose, che ci hanno trasmesso l’amore e la passione per la loro terra, ed anche regalato un libro della città. Il tempo lì dentro si è fermato, non so quanto ci siamo intrattenuti. Purtroppo era ora di andare, ma spero sinceramente, un giorno, di poterci tornare. 

“Corte Polacca” Sebastiano Giorgi

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Appena ci si addentra nella raccolta di racconti di Sebastiano Giorgi Corte Polacca. Avventure oniriche tra Venezia e Varsavia, pubblicata dalla casa editrice Austeria, il mondo sembra diventare più leggero e anche un po’ più instabile. O, almeno, più ricco di sorprese. E tale sensazione diventa più che mai intensa quando ci si lascia irretire da questa successione di singolari vicende abbozzate con tratto sincero e ironico dal protagonista, il fumettista Checco, a cui fanno da sfondo la Varsavia contemporanea e settecentesca, ma che sono intrinsecamente connesse con Venezia.

Il contrasto tra stabilità e instabilità si percepisce bene a bordo di un vaporetto veneziano. Allo stesso modo, in un ritmo cadenzato e ipnotico, i diversi spazi temporali rimangono collegati in una sequenza di storie in cui riflessioni preoccupate sull’attualità sociale si mescolano a descrizioni di situazioni private che portano consolazione in questo mondo difficile mondo contemporaneo. Una casa e una persona cara danno un senso di stabilità (I genitori di Agata), altrimenti difficile da trovare nello spazio dominato dai problemi attuali che vacilla sull’orlo di un precipizio; come la Venezia spettrale di Agamben. I racconti del volume di Corte Polacca, infatti, pur mantenendosi in una poetica ironica e leggera, sono – come sottolinea anche Alessandro Baldacci nella sua brillante introduzione – rivestiti da un tono malinconico, analizzato da Giorgi nel racconto da me preferito Nostalgie. La nostalgia, sentimento tipicamente veneziano, viene ritrovata dall’autore nei polacchi: «Per lungo tempo sono stato convinto che il veneziano di mezza età […] detenesse una sorta di record mondiale, o almeno europeo, di grado nostalgico. Lo pensavo finché non ho scoperto […] i sentimenti che pervadono l’animo di molti polacchi» (Nostalgie). Ci sono altre affinità inaspettate tra Venezia e Varsavia, che si completano a vicenda come lo yin e lo yang (Compro casa), come il confronto tra la riva destra Varsavia e la Giudecca.

A ciò si aggiunge un sentore di assenza spettrale: le passeggiate con gli assenti (Nostalgie) si amalgamano alla vita quotidiana veneziana e varsaviana. Così un altro piano su cui il protagonista cerca un’alternativa alla realtà odierna è la Varsavia dei Lumi, in cui viene trasportato in base all’azione di psicofarmaci assunti involontariamente che hanno un effetto distopico. Non a caso ho invocato qui la teoria classica della narrazione fiabesca, poiché il mondo di queste storie potrebbe essere descritto facendo riferimento alla struttura di una fiaba magica. Una fiaba e un fumetto allo stesso tempo, come già suggerisce l’eccellente copertina di Guido Fuga, fumettista che ha lavorato con Hugo Pratt su Corto Maltese.

Fare jogging nel Parco Łazienki diventa così un’occasione per tornare all’epoca di Stanisław August Poniatowski (Risveglio) e per incontrare i veneziani Giacomo Casanova e Canaletto (Francesco de Futuris; Camera oscura). Checco peraltro prende il nome da un italiano realmente esistito, l’assistente di Bellotto. Di lui e di altri numerosi italiani presenti in Polonia all’epoca dell’ultimo re polacco mi sono occupata in una pubblicazione, per cui ho letto con maggiore curiosità i dialoghi condotti con essi dal loro connazionale narratore. Dialoghi in cui compaiono sia la famiglia veneziana Bragadin, sia Sweet Dreams degli Eurythmics in formato mp3.

I racconti di Giorgi sono caratterizzati da un innegabile tratto fantastico e comico, da un lato, e da un impegno giornalistico nei confronti dell’attualità, dall’altro. Non mancano quindi critiche aperte della percezione contemporanea dell’Italia dominata dagli stereotipi, della Venezia–Disneyland, come nei ricordi della blogger del racconto Tutto bene! La ricetta per risolvere i problemi di Venezia contenuta nel racconto di Veneasy, inoltre, tiene conto proprio della superficialità con cui moltitudini di turisti si avvicinano alla città lagunare.

Ricerca di soluzioni e azione, attività: sono queste le caratteristiche del protagonista, affiancato da una compagna di vita, «una donna meravigliosa», capace di reagire con vero entusiasmo ai progetti di vita anticonvenzionali del suo amato (Catarsi). Agata, inoltre, è in effetti la vera protagonista di questi racconti, il punto di riferimento stabile per tutti gli altri personaggi femminili – contemporanei e del secolo dei Lumi – che compaiono nelle storie.

Poiché, sebbene il ritmo di questi testi sia dato dall’incertezza incalzante dell’esistenza, dell’identità e del futuro, le escursioni, i viaggi e le esplorazioni sono sempre accompagnati da un gesto di ritorno a un mondo stabile definito dal vero sentimento. Un ritorno a Varsavia, un ritorno a Venezia.

Lamborghini 350 GT – C’era un uomo

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traduzione it: Wojciech Wróbel

Ferruccio Elio Arturo Lamborghini aveva solamente 32 anni, quando nel 1948 fondò l’azienda di trattori: Lamborghini Trattori. Poco prima aveva costruito un trattore molto più leggero e piccolo, il ”Carioca”, che era anche molto più economico rispetto alle macchine offerte dalla concorrenza. Lamborghini aveva brevettato una soluzione interessante che ha permesso di avviare il motore con l’uso della benzina e poi passare alla modalità operativa con petrolio greggio che, ovviamente, era molto più economica. I minori costi di produzione furono anche il risultato dell’acquisto di motori dopo il loro uso nell’esercito, fornendo presto alla nuova società numerosi clienti. Negli anni successivi, le seguenti versioni di trattori, cingolati comprese, iniziarono a conquistare i mercati non solo italiani, ma quelli mondiali. All’inizio degli anni 60 del secolo scorso, Ferruccio era già abbastanza ricco da permettersi di guidare le auto di Maranello, che gli piacevano moltissimo e ne possedeva diverse. Ce n’erano anche altre, come due Maserati 3500GT, che acquistò il giorno dopo essere stato sorpassato da questa particolare macchina in autostrada. Tuttavia si lamentava sempre del fatto che tutte queste auto sportive potevano essere migliorate e, soprattutto, andare più veloce. Comunque su una di queste aveva serie obiezioni: si trattava della Ferrari 250GT 2+2 [1962], e più precisamente, sul funzionamento della sua frizione. Vedremo ora una storia che alcuni appassionati di motorizzazione considerano una leggenda metropolitana, altri invece un fatto storico. Quest’ultima versione è confermata da suo figlio Tonino nel libro ”Ferruccio Lamborghini: la storia ufficiale”. Ebbene, durante un incontro con Enzo Ferrari, lo informò che la macchina era fantastica, ma purtroppo tutto il piacere di usarla era rovinato da una frizione difettosa. Ferrari, notoriamente insofferente alle critiche, rispose: ”Caro ingegnere, abbi cura dei suoi trattori e lascia a noi le macchine”. La leggenda vuole che l’orgoglio ferito di Ferruccio fu la molla per fargli fondare il nuovo marchio Automobili Lamborghini. È possibile che questa sia stata la ”scintilla che ha acceso la miccia” di un industriale così esperto, che non aveva paura ad affrontare delle nuove sfide in vari settori [ad esempio la sua azienda Lamborghini Bruciatori produceva caldaie a gas e condizionatori dal 1959], ma a stimolarlo, visto che era un esperto meccanico, fu forse anche il fatto che la frizione del suo trattore aveva le dimensioni che si adattavano perfettamente a questo modello di Ferrari. Tuttavia, funzionava in modo molto più efficiente dell’originale e, particolarmente, era 10 volte più economica. In effetti la possibilità di guadagnare producendo auto sportive è stato per l’intraprendente Lamborghini un incentivo molto maggiore a investire in questo settore rispetto al desiderio di far dispetto a Enzo Ferrari. Le persone intorno a Ferruccio, i dipendenti, le banche… erano molto scettici nei confronti della nuova attività. Anche la sua seconda moglie Anita [la prima, Clelia Monti, morì nel 1947 dando alla luce Tonino] era terrorizzata dall’idea. Ferruccio convinse tutti dichiarando: ”Se costruisco una macchina che soddisferà le mie aspettative, sicuramente soddisferà anche tutti gli altri”. Per calmare Anita, che gestiva il bilancio familiare, ebbe un’idea perversa: finanziò una nuova fabbrica fondata nel 1963 a Sant’Agata Bolognese, abbastanza vicino alla sua città natale, rinunciando a una costosa campagna pubblicitaria per i suoi trattori, che sarebbero apparsi sui cartelloni pubblicitari di tutta Italia. Rischiò un miliardo di lire, sostenendo che le sue macchine sarebbero state una pubblicità molto migliore per i prodotti con il logo Lamborghini. Quanto è stato profetico, basta chiedere oggi agli agricoltori che cosa usano per lavorare nei campi… alcuni risponderanno ”un trattore”, altri invece diranno con orgoglio e sorriso…Lamborghini. Il marchio sui trattori era una scritta semplice e molto leggibile “Lamborghini”, mentre il nuovo marchio di supercar aveva bisogno di qualcosa di unico. Un altro colpo di genio del marketing di Ferruccio, nato sotto il segno zodiacale del Toro e appassionato di corride, imitando un po’ i successi della Ferrari o della Jaguar, anche lui ha scelto per il logo un animale, un toro andaluso: tenace, forte e carico. Lamborghini non era superstizioso, anche se dopo un combattimento nell’arena di solito sopravvive il torero, ma fortunatamente, come dimostra l’ulteriore storia dell’azienda, non questa volta. Nel 1963 Corrado Carpeggiani, braccio destro di Ferruccio, fu incaricato di coinvolgere i migliori specialisti del settore per il nuovo progetto. In soli 6 mesi venne realizzato il prototipo della 350 GTV, per il quale Bizzarrini progettò un motore non tanto sportivo, quanto competitivo. Secondo Ferruccio era un’esagerazione. Si decise di tranquillizzare la potenza e le prestazioni, al che Bizzarrini protestò e abbandonò il progetto. I lavori successivi sulla meccanica sono stati realizzatii da Giampaolo Dallara e Paolo Stanziani. Il prototipo della GTV, carrozzato da Franco Scaglione, fu presentato alla fiera di Torino, dove suscitò grande interesse, ma il modello di produzione, che debuttò pochi mesi dopo a Ginevra come 350 GT, per il quale era responsabile la società Touring, era notevolmente diverso dal suo predecessore. La macchina, per dimensioni e carrozzeria, una coupé 2+2, somigliava ad una Ferrari 250, quella con la famosa ”frizione sfortunata”. Potrebbe essere questo il ”guanto di sfida” lanciato da Lamborghini ai piedi del re di Maranello? Il nuovo marchio viene accolto con entusiasmo e si può solo pensare che se Enzo avesse tenuto conto del consiglio datogli dal costruttore dei trattori due anni prima, forse non avrebbe perso un cliente leale, e negli anni successivi ne avrebbe perso molti. Allora però prevalse l’orgoglio. Pensate a cosa successe a Maranello quando Frank Sinatra, la più brillante star di Hollywood dell’epoca, guidando il nuovo modello di Sant’Agata, l’iconica Miura del 1967, disse: ”Se vuoi essere qualcuno, comprati una Ferrari, ma se sei già una persona così, guida una Lamborghini!”. La Miura [Gazzetta Italia 68 o sul sito Gazzetta Italia] fu la macchina che obbligò tutti i grandi, partendo dalla Benz, passando per Ford, Porsche, Ferrari, ecc.., a fare spazio a Ferruccio ”sull’Olimpo dell’automobilismo”. Quando tutti volevano la Miura, all’improvviso ne interruppe la produzione [762 esemplari], sostenendo che un’opera d’arte non dovrebbe essere troppo comune ma dovrebbe invece essere desiderata. Sorprese ancora nel 1971 con il surreale prototipo Countach LP500, ma il contratto non realizzato per i trattori per la Bolivia ridusse notevolmente anche le finanze di Automobili Lamborghini. Nel 1972/73, frustrato dagli scioperi e dalle perdite subite durante l’implementazione del modello P250 Urraco, decise di vendere l’azienda a imprenditori svizzeri. Poi Ferruccio Lamborghini cambia nuovamente settore tornando alle radici familiari, ovvero l’agricoltura, e fonda vicino a Panicale in Umbria il vigneto ”Tenuta Fiorita”, che è ancora gestito da sua figlia Patrizia, e il loro vino di punta si chiama ”Sangue di Miura”. Ferruccio muore il 20 febbraio 1993 a Perugia, esattamente 30 anni dopo aver creato una delle aziende più note al mondo. Lamborghini ha gestito la sua azienda per soli 11 anni. I modelli che nacquero sotto la sua egida sono: 350GT, 400 GT 2+2, Islero, Espada, Jarama, Urraco, ma soprattutto Miura e l’allora concettuale Countach LP500, furono le fondamenta e la solida base per la leggenda di questa azienda e la sua forza contemporanea. C’era una volta un Uomo!

Tutti gli appassionati di Lamborghini probabilmente vorranno visitare il museo della fabbrica di Sant’Agata Bolognese, attualmente chiamato Mudetec [sic!], cioè Museo delle tecnologie, un’idea strana, lo ammetterete anche voi. Quest’anno celebrano il 60° anniversario della fondazione dell’azienda, esponendo soprattutto gli ultimi modelli, ma nell’ambito di questo testo vi consiglio quello forse meno elegante e sterile, il Museo Ferruccio Lamborghini, gestito da Tonino, situato 25 km a est in località Casette di Funo. Qui si possono ammirare tutte le passioni di Ferruccio, ovvero i trattori, l’originale Carioca, le barche, come ad esempio l’Offshore Fast 45 Diablo, il cui motore vinse 11 volte il campionato del mondo, un prototipo di elicottero e ovviamente le automobili, tra cui la Miura SV rossa di Ferruccio con ciglia come nel prototipo, e questa è solo una dei 12 oggetti unici su scala globale.

Il modello Ricko è con me da oltre 10 anni e non presenta scolorimenti o altri segni del tempo. Forse il suo interno non è fatto su misura, forse le cromature sono troppo lucide, ma i dettagli del motore sono molto soddisfacenti. Recentemente è apparso un modello della società KK Scale, la Lamborghini 400GT, il successore della 350GT. Originariamente l’auto aveva una cilindrata maggiore e prestazioni migliori, ma esternamente non è stato modificato quasi nulla. Dato che è un modello chiuso, preferisco restare con il mio Ricko. 

 

Anni di produzione: 1964 – 66
Esemplari prodotti: 135 esemplari
Motore: V-12 60°
Cilindrata: 3464 cm3
Potenza/RPM: 276 KM / 6500
Velocità massima: 249 km/h
Accelerazione 0-100 km/h (s): 6,4
Numero di cambi: 5
Peso: 1451 Kg
Lunghezza: 4640 mm
Larghezza: 1730 mm
Altezza 1220 mm
Interasse: 2548 mm