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Con l’adesione all’Unione Europea, la Polonia si è impegnata ad adottare la moneta comune: l’euro. Tuttavia, non è stata indicata una data specifica. L’ultima ricerca di Grant Thornton mostra che le aziende polacche sono molto scettiche sull’idea di abbandonare lo zloty. “L’ingresso della Polonia nell’area dell’euro sarebbe auspicato dal 38% delle medie e grandi imprese. Si tratta del secondo risultato più basso dal 2010”, mostra il rapporto. Solo nel 2020 (36%) ci sono stati meno sostenitori dell’entrata nell’eurozona. Nel corso del decennio, il numero dei sostenitori dell’integrazione monetaria con i paesi europei si è ridotto di oltre la metà. Nel 2010, l’85% delle medie e grandi imprese intervistate era favorevole. Contemporaneamente cresce la percentuale degli oppositori all’adozione dell’euro. Nel 2021 la percentuale è del 46%, rispetto al 44% dell’anno prima e all’11% del 2010. La percentuale d’indecisi è stata del 16% nell’ultimo anno, contro il 20% di un anno fa e solo il 4% nel anno 2010. Gli esperti ritengono che la stabilità della valuta possa essere la ragione del miglioramento della percezione dello zloty. Dallo studio è emerso che negli ultimi decenni le forti oscillazioni del tasso di cambio hanno reso difficile per le aziende polacche condurre transazioni internazionali. Non sorprende che la prospettiva di adottare l’euro fosse allettante. Tuttavia, la situazione sta chiaramente cambiando. Lo zloty sta diventando sempre più stabile di anno in anno. Di recente, l’indicatore del tasso variabile medio mensile è aumentato del 5,5% nel 2021. Tuttavia, questo livello è ancora uno dei più bassi da quando lo zloty è diventato una valuta completamente liquida. La ricerca di Grant Thornton suggerisce che la Polonia non ha fretta di adottare l’euro. La maggior parte delle aziende considera una possibile adozione dell’euro ma solo dopo il 2030. Ma un’ampia percentuale degli intervistati (22%) ritiene che la Polonia non adotterà mai la valuta UE.
Nuovo disco per l’italiana “No Stress Band”, gruppo nato 10 anni fa, composto da italiani residenti a Varsavia: Gianni Demozzi, voce e chitarra, Giulio Baioni, piano, Renato Passoni, basso, Roberto Ruggeri, chitarra, Emanuele Liaci, batteria.
Tutti con alle spalle precedenti esperienze musicali con altre band. Dopo un inizio con cantante donna e repertorio cover pop, successivamente il gruppo grazie alla vena poetica di Gianni Demozzi ricomincia un nuovo cammino segnato da un concerto in India che ha lasciato in ogni componente sonorità esotiche e romantiche. Nel primo disco in inglese “Positive Intentions” si ritrovano le influenze indiane. Il secondo disco “Nowhere” più ritmato contiene canzoni in italiano. Seguono l’album romantico “Home” e “2020” con testi ironici sulla pandemia. L’ultimo nato è “Perfect Love” una raccolta di canzoni d’amore con alcuni brani inediti presentato nei giorni scorsi al ristorante Casa Italia. Tutte le canzoni della “No Stress Band” si possono trovare su: Spotify , Apple Music, YouTube.
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Il Presidente della Regione Masovia, Adam Struzik riassumendo l’anno 2021 per la Regione ha indicato che sebbene la prima metà dell’anno si caratterizzasse per un avanzo di bilancio (599 miliardi di zloty), i mesi successivi a causa della pandemia hanno modificato significativamente la situazione. Le autorità hanno annunciato il budget per il 2022: 4,6 miliardi di zloty (stabiliti dal Ministero delle Finanze) e gli obiettivi per i futuri investimenti: protezione della salute, comunicazione, istruzione e cultura. Inoltre, la Regione Masovia verrà coperta dal programma operativo della Polonia Orientale, beneficiando di un contributo di 400 milioni di euro (il programma stanzia un sostegno per un importo di 2,5 miliardi di euro a cinque voivodati e alla zona non metropolitana del Voivodato di Masovia). Struzik per quanto riguarda i fondi, vede un paradosso: mentre lo Stato aumenta i fondi per la Regione, parallelamente lo addebita ancora di più, perché il nuovo bilancio ipotizza un aumento dalle entrate derivanti del CIT (oltre il 20%), allo stesso tempo aumentando i contributi obbligatori al bilancio statale (circa 900 milioni di zloty). Il Presidente della Regione valuta positivamente il funzionamento del programma regionale degli anni 2014 – 2020: Fondi Europei per la Masovia (del valore di 2 miliardi e 9 milioni di euro). Secondo Struzik grazie alla divisione statistica del Voivodato nella regione di Varsavia-capitale (con nove provincie adiacenti) e Regione Masovia (la parte restante del voivodato), è stato possibile mantenere l’importo dei fondi nell’ambito della politica di coesione per il futuro. Struzik ha colto occasione per sottolineare che il Voivodato di Masovia si trova fra quelli con la crescita più rapida in Europa e il suo PIL (149 miliardi di dollari) è stato il doppio di quello della Bulgaria. Nonostante tutto la sfida principale per tutta la regione non cambia nei prossimi anni: livellare le differenze di sviluppo tra periferia e metropoli. Il rapporto “Voivodato di Masovia in numeri 2021” indica differenze significative che causano il drenaggio delle persone con potenziale intellettuale verso le metropoli: le sproporzioni nei tassi di disoccupazione, il livello dei salari (PIL pro capite 2,5 volte superiore nelle grandi città rispetto alla periferia del Voivodato), il numero degli appartamenti costruiti o posti asilo nido disponibili. Nell’ambito della politica di coesione intraregionale, le autorità del voivodato reindirizzano già il 60% delle entrate per le spese in aeree non metropolitane, e gestiscono molteplici programmi di sostegno a comuni e provincie. Attualmente le autorità del Voivodato incoraggiano le aziende a sviluppare l’imprenditorialità, il turismo, l’agriturismo e gli investimenti al di fuori delle metropoli.
Nell’ambito della VI Settimana della Cucina Italiana nel Mondo (22-28 novembre 2021) nei giorni 25 e 26 novembre lo chef Anuelo Serra ha tenuto alcune masterclass con docenti e studenti degli istituti alberghieri di Cracovia (Zespół Szkół Gastronomicznych Nr 1) e Myślenice (Małopolska Szkoła Gościnności), presentando le peculiarità della cucina italiana, legate alle caratteristiche della dieta mediterranea in riferimento ad alcune regioni.
Gli studenti hanno avuto l’occasione di imparare nuove tecniche da cucina, per esempio l’apertura dei ricci. Hanno assistito alla preparazione delle pietanze a base di pesce, frutti di mare e prodotti tipici sardi e mediterranei, come la bottarga, il pane carasau, la fregola.
Oltre questo, grazie alla presenza del pizzaiolo Antonio Salvatore Nuoro, i presenti hanno conosciuto il segreto dell’impasto perfetto per una vera pizza italiana.
Adriano Cossu, la medaglia d’oro ai Campionati Italiani e la medaglia d’argento ai Campionati Mondiali nel curving, ha fatto vedere come scolpire la frutta e la verdura.
Durante tutte le masterclass lo chef Anuelo Serra, insieme a Luciano Sabeddu e Roberto Sabeddu, sottolineava la necessità di tornare alle origini della cucina italiana, alla sua stagionalità e la sana preparazione dei piatti, senza additivi e anche senza sale. Lo chef è un grande divulgatore dell’acqua marina come l’unica fonte del sale nelle sue pietanze.
Grazie alle masterclass gli studenti degli istituti alberghieri hanno avuto l’occasione di vivere una bella esperienza gastronomica che potrebbe essere per loro un buon punto di riferimento nella loro futura cariera.
Che l’Italia sia un paese d’artisti e particolarmente di pittori lo sanno tutti ma non tutti ci rendiamo conto dell’interessante visione dei colori che esiste nella lingua italiana. Interessante perché non sempre corrisponde alla polacca e perché alcune parole ed espressioni italiane usano il colore che nella lingua polacca non si usa oppure che viene associato a un altro significato.
Il rosso ad esempio in italiano sembra essere diverso perché si dice:
IL ROSSO DELL’UOVO vuol dire il tuorlo, la parte…gialla, eventualmente arancione ma sarete d’accordo con me che raramente rossa. Si dice che il colore dipenda da quello che mangiano le galline e che allora una volta il tuorlo aveva un colore più acceso e quindi rosso…
IL PESCIOLINO ROSSO, in polacco złota rybka in latino carassius auratus quindi dorato e non rosso, come proprio in polacco. A guardarlo sembra piuttosto arancione. Poi in polacco è diventato simbolo di un animale che realizza i nostri desideri. È un riferimento ad una delle fiabe dei fratelli Grimm in cui il pesciolino rosso realizzava tre desideri del pescatore. Malgrado sia un testo accessibile a tutti in Italia non è così tanto conosciuto e quindi questa associazione non esiste.
ROSSO DI SERA BEL TEMPO SI SPERA. Un modo di dire italiano che prevede bel tempo il giorno dopo se il cielo di sera ha il colore rosso. In polacco non esiste. Si potrebbe pensare che sia solo una credenza invece c’è una spiegazione scientifi ca. Quando vediamo i raggi rossi vuol dire che nell’atmosfera c’è poca acqua e quindi poche nuvole il che permette di sperare nel bel tempo.
Ma il rosso ha la sua importanza anche di mattina perché:
ROSSO DI MATTINA BRUTTO TEMPO SI AVVICINA. Essenzialmente quando si avvicina una perturbazione da ovest le nuvole sull’orizzonte occidentale hanno il colore rosso. Il detto allora ha il suo senso.
Vediamo un po’ com’è la situazione con gli altri colori:
ESSERE AL VERDE, per dire non avere più soldi. Guardando i colori della Borsa dei Valori il verde significa piuttosto il contrario però questa espressione è nata prima della creazione della Borsa. Ci sono più teorie sulla sua provenienza ma una delle più frequenti spiega che la base delle candele era di colore verde, allora le persone povere che ad esempio a cena usavano le candele fino alla base quando non c’era più niente potevano dire “la candela è al verde” e poi col tempo nell’uso comune l’espressione si è contratta e diventata essere al verde.
LA SETTIMANA BIANCA, mentre in polacco è associata alla settimana successiva al sacramento della Prima Comunione perché si va ogni giorno in chiesa vestito in bianco in Italia è una settimana che andiamo in ferie in montagna, in inverno a sciare. Bianca per la neve.
ESSERE NERO, in polacco una persona arrabbiata sarà piuttosto rossa. In italiano dico “sono proprio nero dalla rabbia”. Attenzione non è per niente un’espressione razzista, pare che derivi dalle credenze dei Greci antichi che credevano che arrabbiarsi scurisse il fegato, il centro della rabbia. Però anche il rosso trova il suo modo di dire in questo contesto, guardando il colore del viso possiamo dire rossi di rabbia.
E così siamo ritornati al rosso, continueremo il nostro viaggio nei colori il prossimo numero.
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Venerdì scorso il presidente Andrzej Duda ha firmato un emendamento alla legge sulla circolazione stradale, che inasprisce le sanzioni per chi viola il codice della strada. Il regolamento aumenta l’importo massimo della sanzione da PLN 5 mila PLN a 30 mila PLN e aumenta l’importo della sanzione che può essere irrogata nella procedura della multa. Facilita la ricezione di una pensione da parte di colpevole pagata a favore dei parenti delle vittime d’incidenti stradali mortali. Una multa da mille a 30 mila PLN sarà inflitta a chi guida un veicolo a motore che non rispetta il divieto di sorpasso previsto dalla legge o da un cartello stradale. Una persona che guida un veicolo senza la patente richiesta o un veicolo senza idoneità alla circolazione sarà punito con l’arresto, la restrizione della libertà o una multa fino a 30 mila PLN. Una multa non inferiore a 3 mila PLN sarà prevista per la mancata osservanza della dovuta diligenza o per aver causato un pericolo da parte dell’autista sotto l’influenza di alcol. Dopo le modifiche delle sanzioni per chi viola il codice della strada il conducente potrà ottenere fino a 15 punti di penalità sulla patente. Attualmente, il numero massimo per alcuni reati è 10. I punti verranno cancellati solo dopo 2 anni dalla data di pagamento della sanzione. L’importo minimo della sanzione sarà di 800 PLN per un automobilista che supera il limite di velocità di oltre 30 km/h. Il nuovo regolamento entrerà in vigore il 1° gennaio 2022.
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Ieri a Varsavia si è tenuto un incontro tra il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Il capo del governo polacco ha dichiarato di aver gradito il fatto che la Polonia sia uno dei primi paesi visitati da Scholz in qualità di cancelliere in quanto è un segnale della volontà di una collaborazione più stretta e di un maggior coinvolgimento a favore della Polonia da parte della Germania. Come annunciato dallo stesso Morawiecki, durante una successiva conferenza stampa, tra i temi trattati c’era quello della situazione sulla frontiera polacco-bielorussa. Sottolineando che il confine occidentale deve essere protetto ed ermetico in quanto è una frontiera non solo della Polonia ma anche dell’UE, il premier polacco ha affermato di aver discusso con Scholz tutti i possibili scenari dello sviluppo della crisi migratoria, incluse le potenziali sanzioni per la Bielorussia che saranno trattate più dettagliatamente durante la prossima riunione del Consiglio europeo. Inoltre, come aggiunto da Morawiecki, uno degli argomenti trattati con il nuovo cancelliere tedesco era quello relativo alla situazione in Ucraina e il possibile deterioramento della situazione non solo in Ucraina ma anche in Polonia, Slovacchia e i paesi europei dell’est a causa dell’apertura del nuovo gasdotto Nord Stream 2. Secondo quanto affermato da lui stesso, Morawiecki ha spiegato a Scholz che se l’Ucraina dovesse cedere al ricatto da parte della Russia, quello inevitabilmente porterà ad una destabilizzazione sia sulla frontiera orientale della NATO sia quella dell’UE. In aggiunta, come evidenziato dal premier polacco, una parte significativa dell’incontro è stata dedicata ai temi europei, compreso quello dell’energia dell’UE, in quanto la Polonia e la Germania sono tra gli attori più attivi all’interno dell’Unione europea. Nel suo intervento in seguito all’incontro con Morawiecki, riferendosi alla situazione al confine russo-ucraino e alle informazioni sulla presenza dell’esercito russo in questa zona, Scholz ha ribadito che l’Unione Europea vigilerà contro le minacce legate alla sua integrità territoriale, valendosi anche degli strumenti diplomatici quali il Formato Normandia (un gruppo composto da Francia, Germania, Ucraina e Russia e fondato per risolvere diplomaticamente la guerra del Donbass e la questione dell’annessione della Crimea alla Russia).
L’antenato del panettone arriva dritto dal Rinascimento. Per la precisione dal ferrarese Cristoforo Messisbugo che nel 1564 nel suo Libro Novo mette nero su bianco la ricetta dei «Pani de latte e zuccaro».
Si devono usare farina, burro, zucchero, uova, latte e acqua di rose; il pane «lo lascerai ben levare», lo cuocerai con grande ordine, «questo pane è più bello a farlo tondo» oppure anche «più grande o più picciolo, come tu vorrai». Ritroviamo le componenti di base del panettone e, soprattutto, la prescrizione che dev’essere molto lievitato («lo lascerai ben levare»), alla quale si aggiunge l’indicazione della forma: tonda. Come si vede, si tratta sì di un panettoncino un po’ smilzo e bassino, senza uvette e canditi, ma gli elementi per proseguire ci sono tutti.
Dovranno passare alcuni secoli prima che il panettone assuma la forma e la sostanza con il quale lo conosciamo noi oggi. Naturalmente sono solo simpatiche leggende tutte le storielle sullo sguattero del duca Sforza di nome Toni che salva il cuoco di corte preparando un dolce con gli avanzi al posto di quello che si era bruciato. Divertenti, ma non c’è niente di vero. La realtà è molto più banale: panettone significa pane grande e rientra nella categoria dei pani dolci natalizi. Siamo in un’epoca, il tardo medioevo, nella quale lo zucchero è un bene preziosissimo e quindi per sottolineare le feste si dolcifica il normale pane che viene infornato (più o meno) ogni giorno. In tutta Italia si confezionano pani festivi – non necessariamente natalizi – con vari nomi: panün valtellinese, pandolce genovese, panspeziale bolognese, panforte senese, panpepato umbro-toscano, pangiallo laziale. L’impasto è dolcificato con lo zucchero e impreziosito con le mandorle (a Bologna), con i pinoli (Genova), e anche con mostarda, uvetta o fichi secchi. Sarà soltanto il pane natalizio di Milano a uscire dai confini locali e a diventare il dolce principe del Natale italiano.
Il panettone come lo conosciamo oggi è figlio dell’industrializzazione: Milano nell’Ottocento si afferma come principale centro manifatturiero della penisola e impone anche il suo dolce natalizio. Già nella seconda metà del secolo i pasticceri milanesi spediscono panettoni per ogni dove. I nomi di Cova, Biffi, Tre Marie, Baj, Marchesi diventano conosciuti ovunque. Ci si comincia a regalare panettoni, dolci costosi perché ricchi di ingredienti di pregio. Sia Gioacchino Rossini, sia Giuseppe Verdi in una lettera ringraziano l’editore musicale Ricordi per l’omaggio di un panettone. A fine Ottocento il dolce diventa addirittura arma di litigio tra il compositore Giacomo Puccini e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini; il primo manda un panettone per Natale al secondo, uomo dal carattere notoriamente ruvido. Dopodiché i due bisticciano, e Puccini invia un piccato telegramma a Toscanini: «Panettone mandato per errore», scrive. Al che Toscanini gli risponde per le rime: «Panettone mangiato per errore».
Panettoni che, attenzione, sono bassi. Per trovare i dolci lievitatissimi che usiamo oggi bisogna andare a Verona dove Domenico Melegatti ha l’idea di riempire di burro e di uova il dolce natalizio tradizionale veronese, il nadalin, in modo che si levi ad altezze al tempo sconosciute. Nel 1894 lo brevetta per dirimere le controversie con altri pasticceri che si attribuivano la paternità del dolce. Il nome deriva dalla tradizione rinascimentale di ricoprire i pani con foglia d’oro per ostentare la propria ricchezza, come in occasione del banchetto organizzato a Bologna il 29 gennaio 1487 da Giovanni II Bentivoglio per celebrare il matrimonio del figlio Annibale con Lucrezia d’Este. Melegatti era un uomo piuttosto intraprendente e sfida il panettone aprendo un negozio nel cuore del territorio avversario, a Milano, proprio in quello stesso corso Vittorio Emanuele dove avevano casa le Tre Marie, azienda che produceva panettoni. Avvia la vendita per corrispondenza e spedisce
pandori in tutto il mondo.
Per arrivare ai panettoni alti, alle tre lievitazioni canoniche, bisogna aspettare Angelo Motta, che dopo aver aperto la propria bottega, nel 1919, applica al panettone lo stesso trattamento che Melegatti aveva riservato al pandoro. Osserva lo scrittore Orio Vergani: «Aumenta considerevolmente le dosi di burro, uova, zucchero e canditi, modifica e accresce i tempi di lievitazione e di cottura e, poiché la pasta, così trattata, diventa più molle, per sostenerla ricorre alla geniale semplicissima soluzione della fasciatura di carta a corona: nasce così il panettone Motta».
Ecco un altro parallelo tra panettone e pandoro: entrambi, per lievitare così tanto, richiedono una pasta molto morbida che ha bisogno di un sostegno per rimanere della forma voluta, Melegatti si è inventato lo stampo a forma di stella, Motta la corona di carta. Gli stampi metallici sono più costosi, ma si riutilizzano, la carta, invece, è economica, ma a perdere. Altro parallelismo è la rincorsa tra concorrenti rivali: a Verona tra Melegatti e Bauli, a Milano tra Motta e Alemagna.
Angelo Motta è il classico industriale venuto su dal niente e, al contrario del buonismo sparso a piene mani dalla sua pubblicità, è un iracondo e si ricordano i carrelli di panettoni rovesciati in malo modo, perché non conformi alla qualità da lui pretesa. L’industriale Mobbi, il cattivone che chiama la polizia per far sloggiare i baraccati, in uno dei più celebri film del neorealismo italiano, Miracolo a Milano, di Vittorio De Sica (1951), ricalca proprio la sua figura, tra l’altro identificabile anche dall’assonanza del cognome. E sembra proprio un paradosso che il dolce simbolo della bontà natalizia fosse prodotto da un industriale invece ricordato per gli scoppi d’ira.
Tra i tanti gentiluomini del cinema italiano, come Fellini, Pasolini, De Sica o Visconti, spicca lei, una donna con telecamera e occhiali bianchi. Ecco Lina Wertmüller, regista dimenticata, quasi inesistente nella coscienza di massa. Eppure è la prima donna ad essere stata nominata agli Oscar come miglior regista. È la madre del cinema di Roma!
Correva l’anno 1977. Dopo qualche mese Agnieszka Holland debutterà nei lungometraggi. In Europa Agnès Varda, rappresentante della New Wave, festeggia i suoi nuovi trionfi. Mentre Liliana Cavani crea scalpore con il film “Il portiere di notte”. Non sono molte le donne regista. Alla nomination agli Oscar per la miglior regia, invece, c’è un presentimento: in mezzo alla cerchia di uomini, improvvisamente, appare lei, una donna, oggetto di derisione in un mondo maschile, conservatore ed eretico. Compare al fianco di registi premiati come Ingmar Bergman, Alan J. Pakula. Sul palco Jane Fonda, attivista e influente femminista, invita Jeanne Moreau, leggenda della cinematografia francese, a leggere il verdetto. Quella sera, Avildsen trionfa con “Rocky”. Eppure gli occhi del mondo, soprattutto di tutte quelle ragazzine che sognano il cinema dietro la cinepresa, sono puntati su Lina Wertmüller, su una donna con un outfit modesto e con i capelli raccolti indietro. Poi gli anni passano, fino ad arrivare ai primi anni Novanta, quando l’esempio dell’italiana è seguito da Jane Campion, poi Sofia Coppola, Kathryn Bigelow, Greta Gerwig e con la candidata di quest’anno, già vincitrice in altri concorsi, Chloe Zhao.
La Wertmüller, all’anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, viene al mondo nella prosperità della vita decadente e folle degli anni Venti. Nasce in una famiglia aristocratica svizzera nel 1928 anno in cui il Parlamento italiano adotta una legge elettorale fascista. La sua storia inizia a Roma presso il Palazzo San Gervasio, proprio nella Roma in cui nel 1900 una signora di nome Angiolina sposa il guardiano del comune Arcangelo Santamaria. Da questo amore è nasce Maria, la madre di Lina, e successivamente dall’unione di Maria e Federico Lucaniano, un nobile avvocato di origine svizzera, viene alla luce una bambina, la quale fin dalla giovane età andrà controcorrente.
Lina Wertmüller
Il carattere difficile di Lina si manifesta fin da ragazzina, quando cambia scuola quindici volte, sempre cacciata per comportamenti inappropriati verso le altre ragazze, ed erano tutte scuole cattoliche. Non le interessavano le regole rigide e i divieti imposti dalle suore, per lei contava solo l’immaginazione, la creazione di personaggi e di situazioni e la provocazione della realtà. Da piccola è stata affascinata dai fumetti, descrivendoli come particolarmente influenti su di lei in gioventù, soprattutto “Flash Gordon” di Alex Raymond. È proprio a causa della lettura di questi fumetti che viene espulsa da una delle scuole. Tali passatempi non si addicono ad una ragazzina. I fumetti di Reymond la conducono al mondo del cinema che lei sogna e di cui parlava anche da adolescente.
Compie i primi passi nel mondo dello spettacolo all’età di 17 anni, quando si iscrive all’Accademia d’Arte Drammatica “Pietro Sharoff”, per debuttare poco dopo come regista di marionette sotto la direzione di Maria Signorelli (la maestra italiana dei burattini). È anche il periodo in cui Lina sostituisce i fumetti con i drammaturghi russi di Vladimir Nemirovich-Danchenko e Konstantin Stanislavskij, i quali la attirano nel mondo delle arti dello spettacolo. Dopo essersi diplomata all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica Silvio D’Amico nel 1951, la Wertmüller fa una tournée pluriennale tra i teatri europei, dirigendo una serie di spettacoli di marionette d’avanguardia. Si occupa letteralmente di tutto lei: dirige, gestisce l’intera produzione, disegna e realizza la scenografia, e dopo l’orario di lavoro si occupa di giornalismo e di scrivere le sceneggiature per la radio e la televisione. Si sente come se fosse protagonista di un fumetto, e questa esperienza lavorativa è tutto il suo mondo.
Con un tale bagaglio teatrale, nei primi anni Sessanta Lina fa la sua comparsa in televisione, dove con successo diventa la prima donna a creare delle serie tv. Mentre lavora su una di esse, incontra Flora Carabella, una vecchia compagna di scuola, che le presenta suo marito, Marcello Mastroianni. Mastroianni aveva appena fatto successo con “La dolce vita” di Fellini ed era una delle più grandi stelle del cinema europeo. Non appena la star viene a sapere dei sogni cinematografici di Lina, la presenta al suo mentore Federico Fellini. E così inizia il sogno che continua ancora oggi. La Wertmüller più volte ha parlato dell’importanza dell’incontro con Fellini e di come, non appena l’ha conosciuta, le abbia subito proposto di diventare la sua assistente nell’imminente produzione di “81⁄2”. Fellini fu affascinato dalla sua forza, era una donna che voleva essere indipendente, soprattutto dagli uomini, cosa rara nell’Italia del dopoguerra. Inoltre l’anima di Lina era profondamente innamorata del teatro, dei burattini, elemento di spettacolo molto affine a quel mondo del circo che amava Fellini.
Descrivendo la loro collaborazione, la Wertmüller disse: “Non si può parlare di Fellini. Descriverlo è come descrivere l’alba o il tramonto. Fellini era un uomo straordinario, una forza della natura, era un uomo dall’incredibile intelligenza e simpatia. Incontrare un tale genio è come scoprire un panorama meraviglioso e sconosciuto. Mi ha aperto la mente quando disse qualcosa che non dimenticherò mai: “Se non sei un buon narratore, nemmeno tutte le tecniche del mondo ti salveranno”. Bisogna saper raccontare il cinema. E dopo questo contatto la giovane Lina raggiunge ciò che sognava quando frequentava le scuole cattoliche, conservatrici e noiose. “Fellini era più che un uomo e un amico. Era come aprire una finestra e scoprire davanti a sé un paesaggio magnifico mai visto prima. Il nostro rapporto era molto più grande, più profondo e più significativo di qualsiasi altra cosa io possa descrivere”, ha confessato la Wertmüller in un’altra intervista.
Ha debuttato nel cinema con il film “I basilischi”. Era l’anno 1963. Fellini presenta “81⁄2”, mentre Luchino Visconti mostra al mondo l’epico “Gattopardo”, e Alfred Hitchcock l’eccezionale “Gli uccelli”, mentre Jean-Luc Godard scala la vetta della new wave francese con il film “Il disprezzo”. Un uomo che è una potenza dell’industria cinematografica. Comunque nonostante questi nomi importanti, il cinema d’autore della Wertmüller riceve subito il riconoscimento della critica e dei giudici al Locarno Film Festival, dove la regista viene premiata con la Vela D’Oro. L’anno seguente gira la serie “Il giornalino di Gian Burrasca” con Rita Pavone, e allo stesso tempo incontra lo stimato scenografo Enrico Job, con il quale si sposa e con il quale decide di adottare la figlia Maria Zulima. Una carriera che continua con successo, gira altri film, tra cui “Mimì metallurgico ferito nell’onore” e “Film d’amore e d’anarchia”, proiettati a Cannes. Successivamente esce “Pasqualino Settebellezze”, che racconta la storia di un uomo con sette sorelle poco attraenti che uccide il seduttore di una di loro. È proprio grazie a questo film che Lina riceve quattro nomination agli Oscar, tra cui quella che la fa diventare la prima donna nella storia a ricevere la nomination per la regia.
L’interesse per la nomination agli Oscar era così grande in quell’ambiente, che molto presto venne proposto a Lina un lavoro nella fabbrica dei sogni e un contratto da firmare con la Warner Bros. per realizzare quattro film a Hollywood. Persino nella rivista Variety comparse un annuncio di due pagine con il titolo “Welcome Lina”. Purtroppo però questa storia d’amore con Hollywood finì rapidamente, poiché già il primo film che girò, “A night full of rain”, con Giancarlo Giannini e Candice Bergen, fu una delusione. La casa di produzione cinematografica Warner annullò il contratto, e la Wertmüller tornò in Europa e, come ammise nelle interviste successive, non ha rammarichi riguardo l’esperienza nella fabbrica dei sogni, evidentemente non era la sua strada.
Con il suo ritorno nel vecchio continente, l’italiana ha cominciato ad affinare ancora di più le sue doti di regista, ha girato film meno scontati con titoli strani, registrati nel Guinness dei primati: “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada” o “Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico”. Nei suoi film si può notare l’influenza di Fellini. Li univa una comune empatia nel modo di vedere la classe operaia italiana, mostrando la realtà della vita di persone politicamente trascurate ed economicamente calpestate, tendente all’assurdità. La Wertmüller, così come Fellini, mostra continuamente la sua adorazione per l’Italia e per i suoi svariati luoghi di infinita bellezza.
Le eroine dei suoi film sono sempre delle donne forti: femministe, anarchiche, comuniste. La vita di Lina è stata segnata dalla politica e non ha mai nascosto di essersi iscritta, dopo la guerra, al Partito Socialista e di aver sostenuto che le donne nel mondo del cinema dovrebbero avere pari diritti. Ogni volta che poteva, prendeva le distanze dalle posizioni estremiste del femminismo, e ripeteva: “Non puoi fare il tuo lavoro, solo perché sei una donna o un uomo. Lo fai perché hai talento. Conta solo questo per me. Dovrebbe essere l’unico parametro valido per stabilire a chi assegnare la direzione del film. Come tutte le altre donne del cinema, anche io ho avuto problemi ad essere accettata in questo ambiente maschile, ma non mi importava. Sono andata per la mia strada”.
Negli ultimi decenni la regista cede il posto ai nuovi astri italiani del cinema. Il suo allontanamento è caduto ingiustamente nel dimenticatoio. Ha salutato i suoi colleghi De Sica, Fellini, Visconti. Ora è di nuovo sola a bordo, a bordo di una nave che naviga. Durante questo periodo ha girato qualche film, di cui due insieme a Sophia Loren “Sabato, domenica e lunedì” e “Francesca e Nunziata”. Ed è stata la Loren, un’icona del cinema italiano, una delle ultime leggende in vita dell’età d’oro del cinema, ad assegnare nel 2020 a Lina Wertmüller l’ambito Oscar alla carriera. Il sogno del cinema continua ancora, ma per me c’è sempre e solo una madre. Il suo nome è Lina e il suo motto per la vita è: “La curiosità è la mia salvezza”.
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Il 9 dicembre presso il Pałac pod Błachą a Varsavia si è tenuta la cerimonia di apertura della mostra intitolata “I presepi di Cracovia. La mostra presso il Pałac pod Blachą.” È la più grande mostra sui presepi di Cracovia ospitata da Varsavia, si possono ammirare 50 costruzioni tradizionali, realizzate in maniera raffinata ma con un tocco di fantasia. La gran parte dei presepi esposti ha vinto dei premi nonché ottenuto dei riconoscimenti importanti durante i concorsi. I presepi esposti presso il Pałac pod Blachą provengono dalle collezioni del Museo nazionale di Cracovia, in particolare, dalle collezioni Renata e Edward Markowski e da altre collezioni private. Secondo quanto affermato dal direttore del Castello Reale di Varsavia, prof. Wojciech Fałkowski, l’idea in base alla quale la mostra è stata organizzata è quella di far incontrare la tradizione creata dai cittadini con l’etichetta di corte simboleggiata dal Castello Reale. Secondo Fałkowski, il fenomeno dell’arte e dell’artigianato creati dagli abitanti di Cracovia risiede nel fatto che entrambi inducono alle riflessioni e conquistano con il loro fascino, incantando con la loro bellezza tutti. Come sostenuto dal direttore del Museo nazionale di Cracovia, dott. Michał Niezabitowski, i presepi di Cracovia rappresentano i valori legati alla cultura polacca ma anche ai sogni dei bambini. Secondo Niezabitowski, ammirando i presepi lo spettatore è in grado di tornare nei lontano mondo dei ricordi e dei sogni. Concludendo, Niezabitowski ha augurato a tutti coloro che visiteranno la mostra di fare un bello e intenso viaggio nel tempo, dichiarando che i presepi, a suo parere, svolgono la stessa funzione dei musei, ovvero quella di far avvicinare l’uomo alla cultura la quale lo cambia interiormente. La mostra è aperta ai visitatori dal 10 dicembre 2021 al 2 febbraio 2022.