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Turisti o viaggiatori?

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In un qualche giorno del lontano gennaio del 1996 presi un treno dall’enclave cattolica di Goa. Colonia portoghese fino al 1961 e poi negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso meta cult dei viaggiatori europei alternativi, Goa è un piccolo stato indiano dalle bellissime spiagge che si affacciano dolcemente sul Mar Arabico. 

Proprio in quei giorni Bombay, nome portoghese che significa “buona baia”, stava diventando Mumbai, scelta politica per allontanare ulteriormente il retaggio coloniale. Il viaggio in treno, con quattro classi di posti, che mi portava da Goa a Mumbai durò 22 ore, oggi ne dura 11 e 10 minuti.

Alla ventesima ora, esaurita ogni lettura, cartacea ovviamente, ma anche ogni più recondito slancio di scrittura sul taccuino nero Moleskine e consumata perfino la mia instancabile curiosità applicata sia nel guardare i paesaggi che scorrevano lenti fuori dal finestrino, sia nell’analizzare sociologicamente l’incessante mutare della fauna che viaggiava con me, entra nel mio scompartimento un ragazzo magrissimo, con una tunica bianca ed una valigetta. Mi si siede di fronte, nonostante ci sia il posto libero lasciato dalla molto più interessante giovane coppia di Sikh che avevo avuto come compagni di viaggio per le precedenti 20 ore. Lui alto e forte con un bellissimo turbante dalle calde tonalità gialle e rosse, con cui avvolgeva un misto di capelli e peli che secondo il sikhismo non vanno tagliati ma accettati quale espressione della volontà del Creatore. Lei una giovane, affascinante, madre dagli occhi blu che alternava l’allattamento al seno del pargolo ad affettuosi gesti di dolcezza verso il marito che ricambiava. Una visione che era un tale mix di bellezza estetica e forza della natura che l’avrei potuta seguire in loop per altre 20 ore.

Il ragazzo incurante della mia palese, ruvida, indifferenza, in parte giustificata dalla stanchezza, vuole a tutti i costi familiarizzare snocciolando una sequenza infinita di domande che mostrano uno spiccato interesse materiale nei miei confronti. Per capirci mi chiede anche quanto guadagno, oltre a quanti figli ho, quante stanze ha la mia casa ed altre amenità quantitative che mi fanno riflettere sui certi banali discorsi europei sulla spiritualità indiana. Di tanti paesi visitati sicuramente l’India mi è parso quello più materico.

La faccio breve. Mentre il treno lentamente scivola fino a fermarsi sui binari dell’imponente stazione Chhatrapati Shivaji, un tempo Victoria Terminus, diventata nel 2004 patrimonio dell’Unesco, tiro fuori la Lonely Planet, Bibbia dei viaggiatori pre-internet, dove ho già segnato sulla mappa alcuni alberghetti economici. Gesto che per il mio pedante compagno di viaggio è un invito a nozze, così attacca: “Ti porto nell’albergo di un amico?”

“No!”

“Magari ti consiglio tra quelli della guida?”

“No!”

Il ragazzo non si perde d’animo e quando il treno si ferma completamente prende il mio zaino sorridente: “Te lo porto io”.

“Assolutamente no!” ribatto caricandomelo in spalla e cercando a passo veloce di seminarlo prima nel corridoio del vagone e poi in stazione.

Uscito sul piazzale cerco un taxi, il ragazzo mi precede ne ferma uno e mi dice eccolo qui.

“No! Me lo trovo io!”, ribatto con tutta l’esperienza che si accumula viaggiando soli, per settimane, in India dove spesso i consigli ricevuti su alberghi, ristoranti, negozi sono interessati. Chi porta un cliente ottiene una mancia.

Trovato il taxi mi volto e lo saluto bruscamente, lui con sguardo triste chiede:

“Potrei almeno salire in taxi con te e poi io proseguo?”

Uno slancio di empatia inavvertitamente squarcia la mia corazza umorale sviluppatasi tra stanchezza di viaggio e di relazioni: “va bene”.

Do le indicazioni al taxi. Quando arriviamo sotto l’alberghetto lo saluto in macchina tarpando il suo slancio nel volermi accompagnare in albergo per, secondo lui, aiutarmi a trattare sul prezzo.

“Ma ci possiamo vedere più tardi?”

La domanda mi coglie di sorpresa, in pochi secondi realizzo che ho una fame bestiale accumulata in 22 ore di insufficienti spuntini.

“Ci vediamo lì tra un’ora”, indico con la mano un negozietto di cianfrusaglie.

“Bene a dopo!”, risponde felice il ragazzo tunicato.

Fatta la doccia, riprese un po’ di forze, scendo 15 minuti prima dell’appuntamento e mi piazzo all’angolo della strada da dove posso seguire l’arrivo del ragazzo senza essere visto. Può sembrare una eccessiva precauzione ma – come raccontato nell’ottimo serial “The Serpent” basato sui crimini di Charles Sobhraj a danno di sprovveduti viaggiatori – in questi casi è meglio tenere la situazione sotto controllo e assicurarsi che il ragazzo sia solo.

Scelgo il primo ristorante che trovo, ovviamente è vegetariano. A tavola il ragazzo, che ordina solo un the, continua per tutta la cena a parlare tra domande – cui non rispondo perché intento a rimpinzarmi di cibi buonissimi, piccantissimi e coloratissimi – e racconti, che ascolto distrattamente, sulla sua famiglia.

Finalmente satollo gli dico: “grazie della compagnia ma ora sono stanco davvero e torno in albergo”, lui sorride felice, ci scambiamo i contatti e chiedo il conto al cameriere che risponde: “ha già pagato il suo amico”.

“In che senso?”

“Per me è un gran piacere parlare e imparare cose da un occidentale”.

“Ma scusa tu non hai mangiato nulla! No, no lascia che ti dia i soldi della cena.”

“No assolutamente, faccio parte di quelli che qui chiamiamo bramini, siamo il vertice della società indiana e per noi è importante imparare dagli stranieri”.

Sono basito e travolto dal senso di colpa per aver mangiato come un leone a spese di questo ragazzo, dalla vergogna per averlo trattato prima con ruvida freddezza e poi con distaccata superiorità e dal pensiero d’esser stato un pessimo esempio di straniero da cui non c’era nulla da imparare. Il mio pregiudizio era sbagliato, ho ricevuto una lezione di vita che oggi, 28 anni dopo, sento ancora con bruciante attualità.

Questo è uno degli aneddoti vissuti in anni di viaggi in solitaria, partendo con biglietto d’aereo con ritorno aperto, uno zaino, con sacco a pelo per le emergenze, un Moleskine e la Lonely Planet. Ritagliando dalla quotidianità almeno un paio di settimane, possibilmente un mese, per scoprire paesi e culture che visitavo e visito immaginando ogni volta come sarebbe viverci, provando la cucina locale, rifuggendo proposte culinarie globali e aprendomi a nuove amicizie verso i locali o gli altri viaggiatori. Una filosofia di viaggio che si fonda sul desiderio di imparare per tornare arricchiti non solo di oggetti esotici ma, soprattutto, di esperienze e ricordi che rimangono indelebili.

Spesso durante il viaggio regalo le magliette che mi porto da casa per far posto ai nuovi acquisti – tovaglie guatemalteche, sciarpe di cachemire nepalesi, elefantini ferma libri indiani, braccialetti masai – con il piacere di pensare che quei miei indumenti chissà per quanto vengono poi usati da qualcuno sul lago Titicaca o sull’isola di Sulawesi.

Non sempre si ha la fortuna di avere il tempo e le risorse per viaggiare a lungo in paesi lontani, si ha però sempre – anche passando un weekend in qualche città europea, tornando in un luogo già visto, o perfino visitando un posto a due passi da casa – la possibilità di scegliere che tipo di approccio vogliamo avere verso il mondo.

Quando girando per la mia città, Venezia – cui non mancano certo le attrazioni culturali e gastronomiche – vedo turisti (non viaggiatori) sostare per più di mezz’ora per prendere due palline di gelato in una determinata gelateria mi chiedo quale sia la loro scala di priorità visto che spesso hanno solo un giorno (!) per visitare Venezia.

Lo so, lo so, nell’era internet tutti guardano prima online i luoghi dove andranno e leggono le recensioni di locali, alberghi, negozi. Ma proprio per questo perché non evitare i luoghi “must”? Perché invece di accodarsi alla massa non distinguersi scoprendo qualcosa di nuovo? Avendo così poi ricordi inediti da raccontare? E se si ha poco tempo è mai possibile sprecarlo in coda di qualche locale consigliato da chissà quale sedicente esperto invece di sfruttare ogni minuto per fare esperienze autentiche? Le buone gelaterie non mancano in Italia, manca invece il tempo per vedere l’infinità di bellezze che il paese offre.

Per secoli le famiglie benestanti mandarono i loro figli a fare il Grand Tour in Italia, e in altri paesi europei, quale forma di investimento culturale e sociale. L’esperienza di viaggio era elemento educativo essenziale per la crescita individuale. Il fatto che oggi possiamo muoverci più facilmente e vedere virtualmente online il mondo non deve farci perdere il senso ed il piacere del viaggiare, né tantomeno l’individualità della nostra esperienza, che se non è personale e vera non è esperienza ma semplice replica d’esperienza altrui.

Il significato della parola esperienza: conoscenza pratica della vita o di una determinata sfera della realtà, acquistata con il tempo e l’esercizio; ci dà le coordinate su cui allineare il nostro viaggio: tempo ed esercizio pratico.

Prima di quel viaggio in India, come d’abitudine, avevo letto un po’ su quell’enorme incredibile paese e praticamente studiato la Lonely Planet. Ma non sono mai partito per un viaggio per trovare quello che avevo immaginato seduto sul divano di casa. Se il viaggio non ci sorprende e non ci arricchisce, cambiandoci, non è un viaggio. Se si parte per avere la conferma del nostro pregiudizio, ovvero di quello che si crede di sapere su un paese, non si è viaggiatori ma turisti che seguono percorsi confortevoli quanto banali.

Nell’anno delle celebrazioni di Marco Polo lasciatemi dire che rischiare d’essere turisti invece che viaggiatori è ancora più grave!

Giacomo Casanova. I Piombi e la fuga

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Avevamo lasciato Giacomo Casanova in una calda giornata di luglio del 1755 con la porta del camerotto dei Piombi che pesantemente si richiudeva alle sue spalle, l’inizio di una detenzione che sarebbe stata costellata di episodi e personaggi curiosi da lui descritti magistralmente nella sua “l’Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu’on appelle les Plombs”, tramandato oralmente nei salotti di tutta Europa e pubblicato solamente nel 1788 a Lipsia, ben trentadue anni dopo la sua fuga.

I Piombi non sono i Pozzi con celle umide, fredde d’inverno e asfissianti d’estate, ricavate al livello del rio di Palazzo sormontato da quel ponte dei Sospiri che nulla ha a che fare con gli innamorati come molti credono visto che i sospiri erano quelli dei carcerati che attraverso la sua finestrella vedevano per l’ultima volta la luce del sole, ai Piombi i reclusi avevano la possibilità di portarsi sia parte del mobilio che molti effetti personali ed erano ricavati nel sottotetto di Palazzo Ducale dalle cui lastre, appunto di piombo, prendevano il nome.

Giacomo Casanova adesso è solo, in attesa di processo, senza sapere quanto dovrà rimanere ai Piombi e affidato alle cure del suo carceriere, Lorenzo Basadonna, che deve provvedere sia alla sorveglianza che alle necessità del recluso ma la reciproca antipatia fa in modo che il rapporto non parta sotto i migliori auspici.

Nell’iter giudiziario e detentivo di Casanova emerge subito un’incongruenza abbastanza macroscopica ovvero il fatto che non esiste traccia del processo che porta alla sentenza del 21 agosto 1755: “Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. (riferito ai tre Inquisitori di stato) lo fecero arrestare e passar sotto li piombi”.

Rinaldo Fulin, scrittore ottocentesco, sostiene che le carte del processo a Giacomo Casanova furono perse durante la dominazione austriaca per un temporaneo spostamento degli archivi ma viene smentito dal fatto che tutte le riferte (verbali di sorveglianza degli Inquisitori ndr) sono tuttora presenti in archivio di Stato, sono infatti in molti a pensare che il processo non venne mai celebrato per evitare di scomodare molti membri di famiglie patrizie in vista quali i Memmo, i Morosini ed altre oltre ad alcuni dignitari esteri allora residenti a Venezia.

Anche le relazioni amorose con due monache sarebbero state abbastanza difficili da giustificare oltre all’appartenenza alla setta massonica dei “Liberi Muratori”, cosa alquanto mal vista dalle istituzioni della Repubblica di Venezia.

In sintesi si parla di “riflessibili colpe” e di  “disprezzo pubblico della Santa Religione”, entrambi capi d’accusa troppo generici per giustificare l’intervento degli Inquisitori dì Stato come magistratura, tanto che sono in molti tra i commentatori a pensare che i motivi fossero altri, in primis la scandalosa liaison con la monaca M.M. e la frequentazione contemporanea di dignitari esteri e di membri del patriziato veneziano, la Repubblica infatti proibiva ai patrizi la frequentazione di residenti esteri per la paura che venissero divulgati segreti di Stato.

La cella è scomoda, dotata solo di una mensola e di un bugliolo (secchio ndr) per i bisogni corporali, il caldo di luglio è opprimente, il libertino chiederà di avere alcuni mobili ed alcuni effetti personali che gli verranno accordati eccetto il rasoio che non era consentito, Matteo Zuanne Bragadin provvede a fargli avere danaro e si informa costantemente delle sue condizioni di salute.

Durante la detenzione, oltre al carceriere Basadonna, Casanova verrà in contatto con altri personaggi tra i quali lo strano barbiere Soradaci, il conte Asquini di Udine e quel Marin Balbi, monasco Somasco che nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre 1756 sarà il suo ingombrante compagno di fuga e complice nell’attuazione del piano.

Il primo tentativo viene scoperto e Giacomo Casanova viene trasferito di cella passando da una che si affacciava sul cortile di Palazzo Ducale ad una affacciata a levante sul Bacino di San Marco, più ampia e luminosa, dalla cui finestrella si poteva vedere il Lido e una piccola parte di Venezia.

Il fallimento non fa desistere Giacomo Casanova che assieme a Marin Balbi continua nel tentativo di fuga che vede il successo nella notte di Ognissanti.

La data della fuga non è casuale ma il risultato di una strana, quanto opportuna, interrogazione cabalistica dell’anima di Ludovico Ariosto che gli risponde con tre numeri: 9-7-1.

Il perspicace, e furbo, libertino interpreta i tre numeri come il primo verso della settima strofa del nono canto de “L’Orlando furioso” che recita esattamente “Tra il fin d’ottobre ed il capo di novembre”

Una fuga rocambolesca attraverso le stanze di Palazzo Ducale fatta di porte forzate con attrezzi di fortuna fino ad imboccare la Scala d’Oro la cui porta però risulta chiusa e difficilmente forzabile ma quando tutto sembrava perduto uno dei custodi, un certo Andreoli, li nota e pensando di che fossero rimasti chiusi all’interno per errore apre l’ultima cancellata che divideva il libertino ed il monaco dal mondo libero.

I due, felici ed increduli, percorrono velocemente la Scala dei Giganti e guadagnano la libertà attraverso la Porta della Carta, attraversano di gran carriera la piazzetta e passando vicini alle colonne di Marco e Todaro arrivando all’imbarco del Traghetto della Zecca ai cui gondolieri Casanova chiede di essere portato a Fusina ma alla fine del Canal de la Giudecca chiede di cambiare destinazione e di essere portato a Mestre, forse per depistare eventuali inseguitori.

Sono stati in molti a mettere in dubbio la veridicità del racconto di Giacomo Casanova, il primo a farlo fu Francesco Zanotto, dando apertamente del bugiardo al libertino, seguito da Ugo Foscolo che definì la fuga “Romanzo né più, né meno” ma verranno entrambi categoricamente smentiti da prove inconfutabili tra le quali le ricevute dei lavori necessari alla riparazione della cella i cui danni corrispondono esattamente al racconto fatto dal libertino.

E mentre sono in molti a chiedersi come sia riuscito a fuggire Giacomo Casanova dai Piombi il libertino a bordo della gondola che lo porta verso Mestre in una fredda alba veneziana di novembre scoppia in un pianto dirotto “elevando l’anima a Dio”.

Luigi Scoglio: Il linguaggio universale del teatro unisce Italia e Polonia

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Luigi Scoglio, scenografo italiano nato in Svizzera, ha studiato all’Istituto Statale d’Arte Ernesto Basile a Messina, per poi laurearsi in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Da più di vent’anni si occupa di scenografie teatrali, cinematografiche e commerciali. Ha collaborato con numerosi artisti in Paesi di tutto il mondo. In Polonia nel 2018 ha ricevuto il premio artistico Maschera d’Oro per le scenografie degli spettacoli Sunset Boulevard e Romeo e Giulietta.

Come è nata la tua passione per il teatro e la scenografia?

La mia passione è nata quando ero molto giovane. Avevo circa sedici anni quando ho cominciato a interessarmi alla scenografia, ovvero il senso del creare gli ambienti per la televisione, il cinema e il teatro. Non vengo da una famiglia d’artisti, la mia fonte di conoscenza sono stati i libri. Ho fatto un abbonamento al teatro drammatico nella mia città, Messina. A quel tempo arrivavano degli spettacoli davvero belli, con degli attori straordinari e delle scenografie visivamente stimolanti e interessanti, concepite da scenografi famosi. Ho visto cosa succedeva in palcoscenico e mi sono appassionato al teatro ancora di più. Poi, mentre frequentavo l’Istituto d’Arte a Messina una delle professoresse mi ha parlato dell’Accademia di Belle Arti di Urbino che è specializzata nel teatro. E allora, avevo diciotto anni, ho deciso di lasciare la Sicilia per studiare alla sezione di scenografia a Urbino. E da lì si è aperto un mondo.Da anni collabori con artisti di diverse nazionalità, tra cui Michał Znaniecki, un regista teatrale polacco. Insieme avete creato produzioni come Don Giovanni, Turandot, Romeo e Giulietta, ma anche i musical, tra cui Sunset Boulevard e Billy Elliot. Com’è iniziata la vostra collaborazione?

È iniziata in maniera abbastanza eccezionale. Michał Znaniecki è poco più grande di me. Quando stavo facendo l’ultimo anno dell’Accademia di Belle Arti, il mio professore di scenografia è tornato da un lavoro che aveva fatto in Irlanda con Michał Znaniecki, un giovanissimo regista di talento che stava iniziando la sua carriera. Michał aveva chiesto al professore di trovare uno studente interessato a realizzare un piccolo spettacolo indipendente, con un budget limitato. Altri studenti hanno rifiutato, ma io ho detto: “Va bene, vado!”. Avevo 25 anni e mi stavo laureando, avevo solo una preparazione accademica e quasi nessuna esperienza professionale concreta. E così ci siamo conosciuti a Roma nel 1999. Ci siamo trovati bene e quando Michał ha cominciato ad avere più progetti mi ha fatto spesso lavorare con lui.  Adesso sono venticinque anni che collaboraiamo.

Avete lavorato insieme in diversi Paesi di tutto il mondo, come la Polonia, l’Italia, l’Ucraina, la Spagna, l’Argentina, l’Uruguay, la Grecia, la Norvegia, la Svizzera, la Croazia e l’Ungheria. Quale impatto ha la cultura di un Paese sul vostro lavoro?

Il teatro è un linguaggio abbastanza universale, ma ovviamente la cultura del Paese in cui ci troviamo influisce su alcuni aspetti del lavoro. Ad esempio, in certi Paesi si deve stare attenti ad alcune simbologie che vengono presentate sul palcoscenico. Se lavori in Israele devi fare più attenzione ai simboli religiosi, come la croce, che appare spesso negli spettacoli legati al cattolicesimo ma in Israele è sconsigliabile usarla. Quando prepariamo uno spettacolo per un pubblico di una cultura o una religione diversa dalla nostra, dobbiamo tenere a mente che si tratta di una situazione delicata e rispettare tali differenze. Gli aspetti tecnici e organizzativi, sono molto simili in tutti i teatri del mondo. La scenografia dipende innanzitutto dal direttore del teatro che commissiona il lavoro. Alcuni direttori preferiscono scenografie moderne, altri quelle più tradizionali, altri lasciano molta libertà fidandosi dell’idea del regista. Quindi non si possono identificare le tendenze a seconda di un Paese.

Come si svolge il processo di progettazione e di costruzione di una scenografia?

Si inizia con il processo creativo, che ogni volta è diverso, perché dipende dal progetto che affronto. L’ispirazione può nascere da qualsiasi cosa: un’intervista, un libro, un film, la musica (anche molto diversa da quella del progetto) … Ma si può trovare ispirazione anche durante una semplice passeggiata nel bosco. Bisogna essere aperti a qualsiasi stimolo esterno. È importante anche il dialogo con il regista. Se il regista ha le idee chiare per me è più facile rappresentare proprio ciò che lui vuole. Questo è un aspetto importante della mia collaborazione con Michał Znaniecki, che fin dall’inizio sa esattamente dove vuole andare e quale storia vuole raccontare. Mi dà tanta ispirazione, fornisce una base solida sulla quale posso lavorare. In questo modo mi alleggerisce il lavoro e si può procedere tranquillamente.

Quando finisco un progetto, cerco di essere presente per tutto il periodo di costruzione delle scene e delle prove. La mia presenza è importante per dare informazioni a tutte le persone che realizzano la scenografia, quindi artisti, tecnici, modellatori. In questo modo possono capire pienamente il progetto e il messaggio che deve trasmettere. Apprezzo molto la collaborazione e lo scambio di esperienze con il personale dei diversi teatri. Ovunque lavoro imparo qualcosa di nuovo dalle persone che incontro. Ho anche l’opportunità di conoscere culture diverse lavorando con persone di differenti Paesi. Per quanto concerne il periodo delle prove, la presenza costante di uno scenografo non è una cosa frequente, però per me è cruciale perché mi permette di entrare nello spirito dello spettacolo che si sta costruendo. Succede spesso che durante le prove nascono nuove idee o soluzioni tecniche che in fase di progettazione non si erano immaginate e questo è il bello del teatro.

Uno dei tuoi progetti più recenti è la scenografia dell’opera Paradiso Perduto (Raj utracony) di Krzysztof Penderecki all’Opera di Lodz, la cui prima ha avuto luogo lo scorso 24 novembre. Che esperienza è stata?

Non è stata la prima volta che ho lavorato all’Opera di Lodz. Quando torno in un teatro che conosco già mi sembra di tornare in famiglia. È stato bello trovarmi di nuovo in quella città e ritrovare persone meravigliose, professionali e, non ultimo, dei grandi artigiani.

Secondo me Paradiso Perduto è uno spettacolo difficile ma anche molto potente. Si tratta di un’opera contemporanea, complicata dal punto di vista musicale e stilistico. È basata sul poema epico di John Milton, uno scrittore seicentesco, il cui testo è pieno di riferimenti alla Bibbia. Di solito quando affrontiamo uno spettacolo prepariamo parecchie versioni, per poi scegliere quella più giusta secondo le idee del regista e che possa piacere anche alla direzione del teatro. Questa volta abbiamo optato per una variante molto densa e ricca dal punto di vista visivo. Tutto è ambientato in un mondo ridotto in macerie, che sembrano lasciate da un’altra umanità che non c’è più. Ci sono tantissime scene e cambi, abbiamo usato molto la tecnologia da palcoscenico. L’opera stessa è abbastanza impegnativa, sia sotto il profilo musicale che di svolgimento delle scene e volevamo renderla più vivace e fluida tramite la scenografia.

Fra tutte le scenografie che hai realizzato, quale è stata la più impegnativa?

È difficile scegliere, ma forse quella per lo spettacolo Lucrezia Borgia che si è tenuto al Gran Teatro di Varsavia nel 2009. È un teatro enorme, la scenografia era gigantesca e includeva molti movimenti complicati. Però ricordo questo progetto con molto piacere, lo considero uno dei più belli che abbiamo fatto. Ovviamente è difficile scegliere la mia scenografia preferita perché ognuna mi lascia un ricordo importante e da ognuna imparo qualcosa di nuovo, sotto il profilo tecnico, stilistico e di rapporti con le maestranze. Porto sempre un bel ricordo di tutti i progetti, sono affezionato a tutte le scenografie perché mi danno sempre diverse esperienze ed emozioni.

Quali tuoi progetti potremo vedere in Polonia nel prossimo futuro?

A marzo e maggio a Białystok porteremo in scena due progetti che ho realizzato con Michał Znaniecki. Al Teatro Drammatico di Białystok ci sarà un musical Le cognate (Szwagierki), basato su un testo molto divertente ma anche cinico di un drammaturgo canadese Michel Tremblay, mentre all’Opera Podlaska presenteremo il dittico Cavalleria rusticana/Pagliacci. Per di più, il 23 e il 24 marzo all’opera di Lodz si terranno le rappresentazioni di Paradiso Perduto.

 

Vi consigliamo di visitare il sito web con le ultime produzioni di Luigi Scoglio: https://luigiscoglio.wixsite.com/lastproductions

Monika Mariotti: il piacere d’essere italo-polacca

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Monika Mariotti, attrice di teatro e di cinema di origine polacco-italiana, nelle sue interpretazioni va oltre gli schemi rimanendo sempre fedele a sé stessa. In Polonia ha già realizzato quattro progetti originali: Moja Nina: Mariotti śpiewa Simone, Spaghetti Poloneze, Szaman: spektakl reporterski e Blues Witch Project. In ognuno di essi condivide con il pubblico le sue riflessioni sul mondo contemporaneo e una incredibile energia che si percepisce in ogni parola pronunciata e cantata.

In che modo il bilinguismo e l’essere cresciuta in due culture influenzano il suo lavoro?

Cominciamo col dire che non mi vedo come due metà: polacca e italiana. Vedo un’unità. Sono cresciuta con una mentalità polacca e italiana allo stesso tempo. Se non fosse stato così forse non avrei mai avuto la necessità di lasciare l’Italia e vivere in Polonia; inoltre, probabilmente non mi sarei ambientata qui. In Italia mi sono laureata in lingua e letteratura russa e sono diventata insegnante di italiano come lingua straniera, attività che svolgo tuttora. Ho imparato a scrivere e leggere in polacco all’età di 25 anni, anche se parlavo questa lingua fin da bambina. Per questo motivo, quando scrivo testi teatrali in polacco, c’è sempre qualcuno che mi aiuta. Parlo sei lingue e nei miei spettacoli ne uso quattro: polacco, inglese, russo e italiano.
Considero la mia doppia discendenza un grande punto di forza ma che non esaurisce tutta la mia identità. In realtà la sottolineo solo nello spettacolo Spaghetti Poloneze, in cui presento in modo giocoso i punti in comune e le differenze tra polacchi e italiani, ma mostro anche aspetti dell’Italia che spesso i polacchi non conoscono e cerco di sfatare vari stereotipi. Credo che gli stereotipi siano una delle basi principali del razzismo. Per questo motivo combatto gli stereotipi sia sugli italiani che sui polacchi. Non accetto la divisione delle persone semplicemente sulla base dell’origine o del colore della pelle.

Le manca l’Italia dopo tutti questi anni in Polonia?

Mi piace molto l’Italia e amo tornarci. Per me è uno dei Paesi più belli del mondo in termini di cultura, soprattutto di storia dell’arte, che adoro. Ciò che amo dell’Italia è l’onnipresenza della storia e la cura che gli italiani hanno per il loro patrimonio culturale. Tuttavia vedo che la difficile situazione in Italia sta costringendo molte persone a partire e a ricominciare la propria vita in altri Paesi, spesso senza conoscere la lingua. Sempre più italiani vengono anche in Polonia, il che dimostra che il loro giudizio su questo Paese, in cui io mi trovo molto bene, sta cambiando.

La sua carriera teatrale è iniziata in Italia. In base alla sua esperienza, vede delle differenze tra il lavoro di attore in Italia e in Polonia?

In Italia sono stata impegnata nel teatro sperimentale di Roma, che mi ha insegnato molto e mi ha permesso di conoscere persone straordinarie. Credo ancora molto nel teatro indipendente, nato dalla passione. Sono una libera professionista e creo gli spettacoli da sola. All’epoca, quattordici anni fa, sentivo un senso di rassegnazione tra gli artisti italiani, causato dal fatto che i teatri sperimentali non ricevevano finanziamenti. In Polonia, credo che il mondo del teatro sia più aperto alle nuove idee. Vedo anche che i creatori sono più concreti, decisi, e questo mi piace molto. Ho imparato tanto in Italia, ma su vent’anni di carriera ne ho trascorsi solo sei a Roma, quindi mi sento più un’attrice polacca.

Il suo ultimo spettacolo, Blues Witch Project, ha debuttato l’8 novembre al teatro Scena Relax di Varsavia. Qual è la storia di questo progetto?

Questo è il mio quarto progetto in Polonia. Tutto è iniziato tre o quattro anni fa quando, insieme a Justyna Gajczak, una cantante di grande talento che conosco da molto tempo, abbiamo cantato Do i move you di Nina Simone e abbiamo pubblicato la registrazione su Internet per puro divertimento. Da questa canzone cantata insieme è nata l’idea di uno spettacolo ispirato dal blues e dall’America. Wojciech Brzeziński, un attore del teatro Ateneum e mio compagno di vita, si è unito a noi. Sono una sua fedele spettatrice, adoro le sue capacità recitative e volevo creare qualcosa con lui da molto tempo. Ho chiesto un finanziamento alla ZASP (Unione degli Artisti Scenici Polacchi) e il periodo successivo è stato così intenso che non ne ricordo molto.

Come succede spesso nei miei spettacoli, anche in questo viene affrontato il tema della diversità. È uno spettacolo importante che parla non solo della storia del blues, ma anche della colonizzazione e del razzismo. Ci sono persone che non vogliono sentire parlare di apertura delle frontiere, ne hanno paura. C’è anche chi lo reputa inevitabile. Io credo che sia meglio aprirsi all’umanità e smettere di dividere le persone in migliori e peggiori. I miei spettacoli mirano a promuovere e sostenere la diversità nel mondo, senza paura e con tutte le conseguenze.

In Blues Witch Project, lei non è solo attrice e cantante, ma anche produttrice e co-regista. Inoltre, ha co-scritto la sceneggiatura insieme a Marta Fortowska. Com’è stato doversi occupare di così tanti aspetti del progetto contemporaneamente?

È stata una sfida enorme e uno stress indescrivibile. Il mio obiettivo è sempre quello di dare qualcosa di valore al pubblico, di trasmettere emozioni e storie. Creare uno spettacolo significa assicurarsi che sia sostanziale e professionale. Voglio che la qualità sia tale che il pubblico possa dire, dopo lo spettacolo, di aver vissuto un’esperienza di vero teatro.

Dopo la mia avventura con Blues Witch Project, sono dell’opinione che il teatro dovrebbe essere a pagamento. Creare uno spettacolo costa decine di migliaia di zloty, e per il pubblico, se può permetterselo, si tratta di un costo di qualche decina di zloty, a volte poco di più. Il teatro è incredibilmente importante per lo sviluppo umano. È anche uno strumento sociale, un’opportunità per stare e riflettere insieme. Invito ai miei spettacoli persone in una situazione economica difficile, ma i miei amici spesso si offrono di comprare i loro biglietti perché vogliono sostenere il teatro. Io faccio lo stesso. Un grande problema del teatro è il problema del denaro. Dovremmo apprezzare il valore degli spettacoli e non avere paura di parlare dei prezzi dei biglietti.

Ha lavorato sia sui progetti da sola che di gruppo. Quale di queste due forme le si addice meglio?

Tredici anni fa ho recitato per la prima volta in Polonia in un gruppo di quattro persone in uno spettacolo Kompleks Portnoya, diretto da Adam Sajnuk e Aleksandra Popławska, in cui recito ancora oggi al Teatro WARSawy. Ho poi trascorso i nove anni successivi a creare e recitare da sola. Ovviamente sono sempre stata accompagnata dai meravigliosi musicisti che stanno alla base dei miei spettacoli, ma Blues Witch Project è il primo spettacolo creato da me in cui sono sul palco con altri attori. Lavorare con Wojciech Brzeziński e Justyna Gajczak è stata una bellissima esperienza che mi ha permesso di confrontarmi con il mio perfezionismo e il mio bisogno di controllo. Quando lavoro con altri attori le responsabilità si dividono, ci sono più forze creative. Credo molto nel lavoro di squadra, che è la più grande forza del teatro. Tutti i miei progetti sono il risultato di una bella collaborazione tra molte persone, senza le quali non potrei immaginare i miei spettacoli. Grazie a Blues Witch Project so che mi piacerebbe continuare a fare lavoro di squadra.

Quali sono i suoi prossimi progetti artistici?

So già che nel mio prossimo progetto ci saranno quattro attori, che ovviamente canteranno. Sarà uno spettacolo di viaggio in cui esploreremo quasi tutto il mondo. C’è anche un altro progetto polacco-italiano in arrivo, di cui purtroppo non posso ancora rivelare i dettagli.

Al Castello Reale di Varsavia la mostra “Le vedute italiane di van Wittel”

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La mostra delle opere di Gaspare van Wittel, uno dei precursori del vedutismo, è stata inaugurata l’altro ieri (21 marzo 2024) al Castello Reale dove resterà visitabile fino al 24 giugno. Anche se van Wittel nacque nei Paesi Bassi, l’Italia divenne la sua patria d’elezione. Vi trascorse la maggior parte della sua vita, dipingendo le città italiane in modo estremamente personale. I visitatori della mostra potranno ammirare 14 bellissime vedute di Roma, Napoli e Firenze, provenienti dalle collezioni private e quindi molto spesso non accessibili al pubblico. La mostra è accompagnata da un programma educativo che comprende conferenze su temi selezionati dall’opera di Gaspare van Wittel, un catalogo e materiale audio registrato dalla curatrice della mostra Alicja Jakubowska. “L’esposizione della collezione di dipinti di van Wittel preannuncia la creazione di una sala dedicata alla moda del Grand Tour: un lungo viaggio attraverso il continente, ma con soggiorno principale nelle città italiane. Una sala dedicata a questo tipo di turismo sarà situata vicino alla mostra permanente delle vedute di Canaletto”, afferma il prof. Wojciech Fałkowski, direttore del Castello Reale di Varsavia.

Patate o batate? Nel dubbio, entrambe!

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Penserete che si tratti di un errore di ortografia, ma non è così: oggi parliamo proprio di patate e di batate, quest’ultime forse più conosciute con il nome di patate dolci o patate americane. 

Nonostante il nome molto simile, patate e batate in comune hanno veramente poco. Entrambe sono ortaggi a radice tuberosa, ed entrambe sono originarie dell’America Centrale e Meridionale, anche se oggi sono coltivate in tutto il mondo. Appartengono però a due famiglie diverse: la patata (Solanum tuberosum) è una Solanacea, gruppo che comprende anche melanzane, peperoni e pomodori, mentre la batata (Ipomea batatas) appartiene alla famiglia delle Convolvulaceae, piante utilizzate perlopiù a scopo ornamentale e conosciute con il nome generico di Bella di giorno o Morning glory.

L’appartenenza a famiglie diverse, oltre ad essere una curiosità botanica, assume una certa importanza dal punto di vista alimentare se si considera che le patate contengono la solanina, una sostanza tossica caratteristica delle Solanacee. La solanina è presente in ogni parte della pianta, comprese foglie, frutti e radici, in quanto ha funzione di difesa contro i parassiti. La sua struttura rimane stabile anche ad alte temperature: nessun metodo di cottura, quindi, è in grado di diminuire il contenuto di questa sostanza che, se ingerita in quantità elevate, può provocare alterazioni nervose e sintomi come nausea, mal di stomaco, vomito e febbre. Nella patata normalmente la solanina è presente a basse dosi. Il suo contenuto aumenta nelle patate verdi (colorazione dovuta all’esposizione alla luce o al freddo) e nelle altre parti della pianta: per questo motivo bisognerebbe conservare le patate al riparo dalla luce, e non consumarle nel caso presentino numerosi germogli. Non essendo una Solanacea, la batata non contiene la solanina, e quindi possono essere consumate anche altre parti della pianta, come le foglie.

Sia le patate sia le batate si presentano con una buccia marrone che può essere ruvida o liscia, e la polpa di vari colori tra cui giallo, rosso e viola, a seconda della varietà.

Ciò che le distingue maggiormente è il gusto: delicato quello delle patate, molto dolce quello delle batate.

I valori nutrizionali sono pressoché identici in termini di calorie, proteine e carboidrati contenuti. Le batate forniscono un contenuto maggiore di vitamina C e di vitamina A, oltre ad essere ricche di antiossidanti. La differenza importante è data dal loro indice glicemico (IG), il valore che esprime la capacità dei carboidrati contenuti in un alimento di innalzare la glicemia. Gli alimenti a basso IG vengono assorbiti e metabolizzati più lentamente, con conseguente aumento del senso di sazietà e benefici sul controllo del peso.

Nonostante il sapore dolce, la batata ha un indice glicemico moderato (da 44 a 94, contro 110 della patata) poiché contiene prevalentemente carboidrati complessi. Tuttavia bisogna tenere presente che l’IG è fortemente condizionato dal metodo di cottura: l’alta temperatura innesca un processo che rende gli zuccheri più semplici, e quindi più facilmente assorbibili. Per questo motivo, ad esempio, le batate al forno hanno un IG molto più alto di quelle bollite, e lo stesso vale per le patate.

Ovviamente la domanda più interessante è: come gustare al meglio patate e batate? Le patate hanno senza dubbio raggiunto un grado di diffusione tale per cui le ricette sono già molto conosciute e pressoché infinite: fritte, arrosto, lessate e condite in insalata, oppure come ingrediente base per polpette, zuppe e soufflé. Ce n’è davvero per tutti i gusti.

Le batate sono un po’ meno conosciute, ma altrettanto versatili. Come le patate, possono essere cotte intere oppure tagliate a fette sottili o a cubetti, per poi procedere alla preparazione che si preferisce: bollite, in padella, fritte oppure al forno. Possono essere consumate anche crude (il loro sapore in tal caso ricorda molto quello delle carote) e con o senza la buccia (sì, è commestibile anche cruda!).

Si prestano molto alle ricette di ispirazione esotica, come il curry o il Batata Harra di origine libanese, ma possono essere utilizzate anche per la preparazione di dolci. In generale, sono un buon sostituto della zucca in diverse preparazioni tra cui risotti, sughi, ripieni e torte salate.

Nel dubbio, perché non preparare patate e batate insieme, nella stessa ricetta? La mia preferita è anche la più semplice: cotte al forno, condite con olio d’oliva, sale grosso e un’abbondante manciata di salvia e rosmarino fresco. Basterà tenere presente un piccolo accorgimento: la batata è molto più tenera della patata, di conseguenza la cottura avviene in tempi più brevi. Iniziate la cottura con le sole patate, e dopo circa 20 minuti aggiungete anche le batate. Volendo rendere la ricetta più croccante ed originale, aggiungete qualche cucchiaio di farina di mais fioretto o fumetto di mais (le farine a grana più fine), e mescolate bene prima di continuare la cottura. Il risultato sarà una pirofila piena di profumo e di colore.

Borsalino – Il cappellaio geniale

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L’unica cosa che non dovrebbe mancare nel guardaroba di ogni uomo è un cappello.

Ci sono i cappelli per la vita di ogni giorno, alcuni per occasioni speciali, altri che si adattano a stati d’animo diversi.

Il cappello è certamente un segno di riconoscimento, ma è soprattutto un’ancora di salvataggio:

salva l’uomo dall’imbarbarimento dei costumi, dalla perdita progressiva dell’eleganza.

(Humphrey Bogart, Times Magazine 1948)

 

Alessandria è una città piemontese apparentemente con poco carattere. Fatta di edifici moderni e situata in pianura, non corrisponde all’immagine del Bel Paese che di solito si ha all’estero. D’estate c’è un caldo insopportabile. D’inverno, invece, il freddo umido e la nebbia avvolgono ogni cosa. La città, però, sorprende per i suoi eleganti negozi e per le accoglienti caffetterie in stile belle époque, nobile eredità del vecchio Piemonte dei Savoia. E qui centosessantasei anni fa fu fondata la grande azienda di Giuseppe Borsalino, che produceva i famosi cappelli, diventando con il tempo fornitrice della Real Casa torinese, delle star del cinema, di papi e della mondanità internazionale.

Fin dall’inizio, Giuseppe Borsalino voleva creare prodotti che potessero essere venduti in tutto il mondo. A soli sedici anni partì per la Francia dove per sei anni fece l’apprendista in diverse botteghe. Tornò ad Alessandria nel 1857. Insieme al fratello Lazzaro comprò a Manchester i macchinari più moderni dell’epoca e aprì una piccola bottega. Il senso degli affari, lo stile e il fiuto per le nuove mode contribuirono ai loro primi successi. I due fratelli disegnarono nuovi copricapi, combinando l’estetica rigida dei cilindri e delle bombette con le linee e i materiali morbidi dei cappelli usati dalla classe operaia. L’idea fu un successo. Nel 1888 la fabbrica produceva 550 pezzi al giorno, che nei primi del ‘900 arrivarono a 5.500. L’aumento della capacità produttiva fu possibile grazie a un nuovo stabilimento inaugurato in Corso Cento Cannoni, proprio nel centro di Alessandria. Anche se oggi il fatto può far sorridere, l’azienda Borsalino ebbe, per prima, l’idea di proporre una collezione esclusivamente femminile, che si rivelò una brillante strategia di marketing. Tuttavia, in un’epoca in cui nessuno usciva di casa senza un cappello, Giuseppe Borsalino non lo portava, perché riteneva che gli impedisse di pensare.

Il classico Borsalino è una variante di un copricapo chiamato Lobbia, la cui origine si lega alla disgrazia di un deputato. Il 15 giugno 1869, Cristiano Lobbia, che si batteva contro la corruzione dei politici, fu aggredito nel centro di Firenze con una bastonata in testa. Lobbia divenne un eroe nazionale. Pochi giorni dopo, un modista fiorentino, dopo aver letto che la bastonata dell’aggressore aveva causato un solco sulla bombetta del deputato, ideò un modello simile e lo espose in vetrina con un biglietto che ne presentava il nome “cappello alla Lobbia”. La novità trovò subito imitatori in tutta Italia. Col tempo Giuseppe Borsalino perfezionò il Lobbia, aggiungendo due falde laterali nella corona, che ne facilitavano la cortese alzata per salutare le signore a passeggio. Inoltre la qualità del materiale impiegato per la produzione garantiva il comfort del nuovo modello Borsalino. Si trattava di un feltro di pelo di coniglio rasato appartenente ad una razza australiana appositamente importata e tuttora allevata in Piemonte. Così i cappelli alessandrini, ancora oggi, vengono creati con lo stesso procedimento da oltre 160 anni.

In una prima fase, il pelo di coniglio, viene pulito e adagiato su appositi coni d’acciaio, dove subisce un processo di infeltrimento grazie all’azione di calore e acqua, formando lentamente un semilavorato quattro volte più grande della misura definitiva. L’intero processo di produzione dura sette settimane. Tutte le fasi, esattamente cinquantadue per ogni pezzo, sono eseguite con attrezzature manuali. Il mestiere si tramanda, spesso, di generazione in generazione e richiede grande impegno e manualità. È grazie a questo che è nato un marchio leggendario e rispettato a livello internazionale, che però ha visto alternarsi alti e bassi. La Seconda Guerra Mondiale provocò una forte riduzione della domanda, la maggior parte degli uomini fu arruolata e la fine del conflitto portò un cambiamento nella moda e nei costumi. Fu allora che Borsalino si rivolse al mondo del cinema per promuovere i propri prodotti. Il Borsalino è stato senza dubbio reso famoso da Humphrey Bogart nel film Casablanca del 1942. È curioso scoprire che i cappelli da cowboy nei film western non sarebbero figli del Far West ma un’invenzione cinematografica, creata per la fabbrica dei sogni dall’azienda piemontese. Col passare degli anni l’ormai famoso copricapo viene indossato anche da Alain Delon, J.P. Belmondo, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Woody Allen, Toni Servillo nel film premio Oscar La grande bellezza, e da John Malkovich nella serie televisiva The New Pope. Nel frattempo, l’azienda ottiene altre commissioni esclusive, tra cui quella per le bombette azzurre delle hostess della Pan Am Airlines, e un ordine di duemila cilindri neri per lo Scià Reza Pahlavi, per commemorare il 2500° anniversario dell’Impero Persiano. Significative furono anche le collaborazioni con la Settimana della Moda di Milano e i progetti realizzati con creativi come Gianni Versace e Krizia. Nel corso del tempo, tuttavia, la mancanza di eredi nella famiglia Borsalino ha fatto sì che negli anni Ottanta l’azienda cadesse nelle mani di uomini d’affari poco onesti e finisse per trovarsi in gravi difficoltà finanziarie, portando la secolare azienda al collasso. Da qualche anno la società ha un nuovo proprietario, l’olandese Haeres Equita, e sta cercando di reinventarsi facendo leva sui gusti dei millennials di oggi, il target principale dell’azienda.

Il mutamento però non lo si percepisce nello storico negozio Borsalino nel centro di Alessandria. L’atmosfera qui è un po’ sonnolenta, anche se la lunga storia di questo posto rende la visita emozionante.  In un venerdì pomeriggio autunnale, i clienti sono pochi o del tutto assenti. Più che un negozio sembra un piccolo museo. Forse gli acquisti vengono fatti nell’outlet aziendale od on-line? Un commesso, educato e disponibile mi invita a dare un’occhiata all’interno e addirittura a provare quello che desideravo! Tuttavia, mi sembra sciocco ammirarsi nello specchio e poi non comprare nulla, quindi dopo un giretto mi dirigo verso l’uscita. Ma ad attirare la mia attenzione sono due specchi con antiche scritte NUTRIA. Mi viene da ridere perché mi fanno venire in mente le poco stilose e molto pelose pellicce usate in Polonia nell’epoca comunista. Il commesso mi racconta che in Italia un tempo la pelliccia di nutria aveva lo stesso valore di quella di castoro e che il suo pelo veniva utilizzato insieme a quello di coniglio per produrre feltri pregiati. Ecco, tutto dipende dal contesto. Uscendo dal negozio, noto anche due scaffalature in legno con piccole ruote, questi graziosi mobiletti in passato avevano una funzione piuttosto banale, ovvero erano i carrelli per i trasporti da un reparto all’altro. Si tratta di veri e propri pezzi d’antiquariato, recuperati di recente dall’oblio del magazzino della fabbrica.

L’attuale stabilimento Borsalino è un semplice edificio circondato da una recinzione, situato quasi in un campo aperto nella frazione di Spinetta Marengo, a sette chilometri da Alessandria. La grande e squadrata insegna BORSALINO sulla copertura della fabbrica non si adatta al vecchio stile dell’elegante marchio. Immagino che volesse essere moderno, ma il risultato è stato modesto. Speravo di poter fare un giro dell’edificio e dare un’occhiata al processo di produzione, l’azienda a volte permette le visite, purtroppo questa volta non è stato possibile. Per fortuna esiste un nuovo museo del brand, inaugurato la scorsa primavera nel vecchio edificio della società nel centro della città. Del complesso produttivo – le cui dimensioni erano pari a quelle della Manufaktura di Łódź in Polonia – dopo i bombardamenti dell’ultima Guerra è rimasta solo una parte con l’ingresso principale del palazzo. Fino al 1987 aveva resistito anche la ciminiera dello stabilimento con l’insegna originale Borsalino, che le autorità decisero di demolire. Tommaso, lo studente di storia dell’arte che mi ha fatto da guida nel museo, racconta di essere un nostalgico per le antiche strutture che sono andate perdute.

Oltre duemila copricapi di tutte le fogge sono esposti nelle originali vetrine disegnate da Arnaldo Gardella, autore del progetto di tutta la fabbrica Borsalino dell’anteguerra. Le teche servivano un tempo per raccogliere tutti i campioni di produzione. Oggi contengono diversi modelli storici appartenuti, fra gli altri, al compositore Giacomo Puccini, che aveva un debole per la moda, ai papi Giovanni XXIII e Benedetto XVI, a Federico Fellini, John Wayne, Harrison Ford e Robert Redford. Ci sono anche: il Trilby preferito da Frank Sinatra e i famosi Fedora e Mambo, insieme ad altri berretti, toques, cilindri e tube, le cloche e i Panama. Questi ultimi sono nati in Ecuador, dove vengono ancora intrecciati usando le fibre di una palma locale, e sono patrimonio culturale di questa terra. Devono però il loro nome allo stato di Panama dove venivano venduti in particolare ai cercatori della grande corsa all’oro in viaggio verso la California. Ancora oggi i Panama prelavorati arrivano ad Alessandria e vengono poi rifiniti e decorati. A volte però, occorrerebbe una pepita d’oro per poterne acquistare uno, dato che alcuni modelli con l’intreccio più fine, raggiungono prezzi molto alti. La storia dei copricapi è il risultato dello sviluppo della civiltà, degli eventi storici, di nuove esigenze e stili di vita e della necessità di viaggiare. Un esempio può essere il fatto che la diffusione dell’automobile ha richiesto l’introduzione di cappelli più bassi che potessero essere indossati anche alla guida.

La visita al Museo Borsalino di Alessandria è come un viaggio nel tempo. Una volta terminato, vado a rifocillarmi in uno dei ristoranti locali. La cucina piemontese è ricca di tradizione. Il Barbera si sposa bene con un piatto di agnolotti al sugo di brasato. Più tardi passerò dall’antica pasticceria Gallina per qualche bacio di Alessandria, croccante pasticcino alle nocciole che gusterò sognando un cappello Borsalino tutto per me.

La collezione del Castello Reale di Varsavia si arricchisce del “Soldato in piedi con armatura” di Raffaello

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Il Castello Reale di Varsavia ha presentato ieri durante una conferenza stampa il suo nuovo acquisto ovvero il disegno di Raffaello “Soldato in piedi con armatura” (circa 1506-1509). Si tratta del primo disegno dell’autore in Polonia, dopo la scomparsa del “Ritratto di un giovane uomo” durante la seconda guerra mondiale. “L’acquisto del Castello Reale non è solo un arricchimento della collezione di un’opera unica ma anche l’ampliamento delle risorse artistiche dell’intero paese”, ha affermato il direttore Wojciech Fałkowski. Il disegno è realizzato a penna e inchiostro marrone su carta rigata e rappresenta il profilo di un soldato con la mano destra tesa in cui impugna una spada. Attenzione merita la linea libera, spontanea e precisa dell’artista. Lo schizzo dimostra le eccellenti capacità di disegno del maestro rinascimentale, che già in vita fu acclamato un genio. Il disegno di Raffaello sarà esposto per una settimana fino al 17 marzo alla Galeria Arcydzieł al Castello Reale di Varsavia. Lo potremo rivedere in autunno insieme alle altre opere del maestro che comporranno la mostra “Raffaello. La bellezza del rinascimento”. Sarà la prima mostra dedicata all’artista in Polonia dove potremo ammirare le più preziose opere provenienti dalle gallerie italiane più importanti come Galleria degli Uffizi, Pinacoteca Palatina, Musei Vaticani, Palazzo Barberini e altre.

Tavola rotonda: Donne italiane in Polonia tra imprenditorialità e managerialità, Ambasciata d’Italia a Varsavia, 8 marzo 2024

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In occasione della Giornata Internazionale della Donna si è svolta presso l’Ambasciata a Varsavia la Tavola Rotonda “Donne italiane in Polonia tra imprenditorialità e managerialità”. L’evento – aperto dall’Ambasciatore Luca Franchetti Pardo – ha visto la partecipazione di sette donne “leader” provenienti da diversi ambiti lavorativi, che hanno confrontato le rispettive esperienze.

La discussione, a porte chiuse, ha esaminato in particolare le tendenze e le opportunità attuali in Polonia per le donne italiane nell’imprenditorialità; le principali sfide e ostacoli che deve affrontare una donna imprenditrice/manager; le competenze specifiche richieste dal mercato del lavoro polacco rispetto a quelle normalmente necessarie in Italia; l’eventuale disponibilità di risorse e incentivi per supportare le donne nel loro percorso lavorativo. Sono state anche esaminate le differenze nel modo di conciliare le responsabilità tra lavoro e vita privata in Polonia rispetto all’Italia.

Gli esiti della Tavola Rotonda verranno sintetizzati in un documento che sarà illustrato ad una platea più ampia in una successiva occasione pubblica, in programma per la tarda primavera prossima, anche in un’ottica di networking al femminile – esigenza fortemente evidenziata nell’evento odierno che ha permesso a diverse partecipanti di incontrarsi per la prima volta.

La Tavola Rotonda è stata organizzata dall’Ambasciata italiana a Varsavia in collaborazione con Com.It.Es. Polonia e Confindustria Polonia.

Banca Intesa Sanpaolo, avvicendamento alla direzione della filiale di Varsavia

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Serata conviviale ieri in Ambasciata d’Italia per un saluto al direttore della filiale Banca Intesa Sanpaolo, Novella Burioli, che dopo 5 anni lascia la sede di Varsavia per Singapore da dove sarà responsabile di un’ampia area geografica. “Gli anni passati a Varsavia sono stati intensi e proficui, ho avuto modo di apprezzare una comunità italiana vivace sia dal punto di vista imprenditoriale che culturale che noi come banca sistemica abbiamo cercato di supportare per creare sempre più ponti tra Italia e Polonia”, ha detto Burioli.

“Da parte della direttrice Burioli e di Banca Intesa Sanpaolo ho avuto sempre una disponibilità proattiva a supportare le iniziative italiane, disponibilità di cui la comunità italiana ha bisogno per svilupparsi in maniera sempre più efficace. Colgo l’occasione per accogliere con un in bocca al lupo il dottor Stefano Gavazzi che sostituisce la dottoressa Burioli”, ha dichiarato l’Ambasciatore d’Italia Luca Franchetti Pardo al fianco della moglie Marta che ieri hanno accolto con una deliziosa cena una piccola rappresentanza della comunità finanziaria e culturale italiana in Polonia.